Canto III

...Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate...

Argomento del canto

La porta dell’Inferno – Ignavi – L’Acheronte e Caronte 

È la sera del 25 marzo (o 8 aprile)

Lo shock da primo impatto

Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate

Sono queste solo alcune delle minacciose parole di colore oscuro che l’impaurito Dante vede al sommo della porta dell’inferno. Per rassicurarlo, Virgilio lo prende per mano. 

Il rumore che Dante avverte è fortissimo.

L’Inferno è una tumultuosa colonna sonora di sospiri, pianti, lamenti, lingue strane, parole di dolore, d’ira, voci di diversa intensità. Tutto attorno c’è buio, un buio totale di un’aria eternamente nera senza giorno e senza notte. Dante piange. L’orrore gli prende la testa.

“Maestro, chi è questa gente così vinta dal dolore?” Sono coloro che visser sanza infamia e sanza lodo, quelli che nella vita non diedero motivo né per essere lodati né per essere disprezzati. Sono anime che non vuole il cielo e che non vuole nemmeno l’inferno. Il giudizio di Dante si esprime attraverso l’ordine categorico di Virgilio: non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

Dante vede una bandiera che gira forte forte su se stessa e che si muove con velocità seguita da una lunga fila di questi peccatori. Dante riconosce qualcuno, ma non ne dice il nome. Riconosce l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto. A chi pensa Dante?  Al papa Celestino V, a Pilato, a Esaù? Quello che è certo è che per Dante non scegliere nella vita significa condannarsi alla morte e per questo descrive queste anime come quei sciaurati che mai non fur vivi. Sono nudi e sono punti da mosconi e da vespe che rigano il loro volto di sangue. Mescolato a lacrime, viene raccolto ai loro piedi da fastidiosi vermi.

Ecco ora tantissima gente che corre verso il fiume Acheronte, al di là del quale c’è l’Inferno. Sul fiume una nave con sopra un vecchio, bianco per antico pelo: è Caronte che grida, insulta e minaccia le anime che a loro volta bestemmiano. Subito si accorge che Dante è vivo e gli ordina di spostarsi. Aggiunge che Dante arriverà nell’aldilà da un'altra via: non è quindi destinato all’inferno. Interviene Virgilio: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare”. È una formula che sentiremo usare altre volte: questo viaggio è voluto là dove si può ciò che si vuole, in Paradiso. Basta questo a quietare le lanose gote, le guance piene di barba, del vecchio Caronte, che attorno agli occhi avea di fiamme rote.

Caron dimonio, con occhi di bragia, rossi di brace, batte con un remo tutte le anime che rallentano e si raccolgono piangendo sulla riva malvagia dell’Acheronte.

La terra buia trema – un terremoto – e poi balena una luce vermiglia – un fulmine. Questo terremoto e questo fulmine vincono la capacità di sopportazione di Dante che perde i sensi e cade come un uomo addormentato.

Testo del canto

Per me si va ne la città dolente,

per me si va ne l'etterno dolore,

per me si va tra la perduta gente.


Giustizia mosse il mio alto fattore:

fecemi la divina podestate,

la somma sapienza e 'l primo amore.


Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterno duro.

Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate».


Queste parole di colore oscuro

vid'io scritte al sommo d'una porta;

per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».


Ed elli a me, come persona accorta:

«Qui si convien lasciare ogne sospetto;

ogne viltà convien che qui sia morta.


Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto

che tu vedrai le genti dolorose

c'hanno perduto il ben de l'intelletto».


E poi che la sua mano a la mia puose

con lieto volto, ond'io mi confortai,

mi mise dentro a le segrete cose.


Quivi sospiri, pianti e alti guai

risonavan per l'aere sanza stelle,

per ch'io al cominciar ne lagrimai.


Diverse lingue, orribili favelle,

parole di dolore, accenti d'ira,

voci alte e fioche, e suon di man con elle


facevano un tumulto, il qual s'aggira

sempre in quell'aura sanza tempo tinta,

come la rena quando turbo spira.


E io ch'avea d'error la testa cinta,

dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo?

e che gent'è che par nel duol sì vinta?».


Ed elli a me: «Questo misero modo

tegnon l'anime triste di coloro

che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.


Mischiate sono a quel cattivo coro

de li angeli che non furon ribelli

né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.


Caccianli i ciel per non esser men belli,

né lo profondo inferno li riceve,

ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».


E io: «Maestro, che è tanto greve

a lor, che lamentar li fa sì forte?».

Rispuose: «Dicerolti molto breve.


Questi non hanno speranza di morte

e la lor cieca vita è tanto bassa,

che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte.


Fama di loro il mondo esser non lassa;

misericordia e giustizia li sdegna:

non ragioniam di lor, ma guarda e passa».


E io, che riguardai, vidi una 'nsegna

che girando correva tanto ratta,

che d'ogne posa mi parea indegna;


e dietro le venìa sì lunga tratta

di gente, ch'i' non averei creduto

che morte tanta n'avesse disfatta.


Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,

vidi e conobbi l'ombra di colui

che fece per viltade il gran rifiuto.


Incontanente intesi e certo fui

che questa era la setta d'i cattivi,

a Dio spiacenti e a' nemici sui.


Questi sciaurati, che mai non fur vivi,

erano ignudi e stimolati molto

da mosconi e da vespe ch'eran ivi.


Elle rigavan lor di sangue il volto,

che, mischiato di lagrime, a' lor piedi

da fastidiosi vermi era ricolto.


E poi ch'a riguardar oltre mi diedi,

vidi genti a la riva d'un gran fiume;

per ch'io dissi: «Maestro, or mi concedi


ch'i' sappia quali sono, e qual costume

le fa di trapassar parer sì pronte,

com'io discerno per lo fioco lume».


Ed elli a me: «Le cose ti fier conte

quando noi fermerem li nostri passi

su la trista riviera d'Acheronte».


Allor con li occhi vergognosi e bassi,

temendo no 'l mio dir li fosse grave,

infino al fiume del parlar mi trassi.


Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo,

gridando: «Guai a voi, anime prave!


Non isperate mai veder lo cielo:

i' vegno per menarvi a l'altra riva

ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.


E tu che se' costì, anima viva,

pàrtiti da cotesti che son morti».

Ma poi che vide ch'io non mi partiva,


disse: «Per altra via, per altri porti

verrai a piaggia, non qui, per passare:

più lieve legno convien che ti porti».


E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare:

vuolsi così colà dove si puote

ciò che si vuole, e più non dimandare».


Quinci fuor quete le lanose gote

al nocchier de la livida palude,

che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.


Ma quell'anime, ch'eran lasse e nude,

cangiar colore e dibattero i denti,

ratto che 'nteser le parole crude.


Bestemmiavano Dio e lor parenti,

l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme

di lor semenza e di lor nascimenti.


Poi si ritrasser tutte quante insieme,

forte piangendo, a la riva malvagia

ch'attende ciascun uom che Dio non teme.


Caron dimonio, con occhi di bragia,

loro accennando, tutte le raccoglie;

batte col remo qualunque s'adagia.


Come d'autunno si levan le foglie

l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo

vede a la terra tutte le sue spoglie,


similemente il mal seme d'Adamo

gittansi di quel lito ad una ad una,

per cenni come augel per suo richiamo.


Così sen vanno su per l'onda bruna,

e avanti che sien di là discese,

anche di qua nuova schiera s'auna.


«Figliuol mio», disse 'l maestro cortese,

«quelli che muoion ne l'ira di Dio

tutti convegnon qui d'ogne paese:


e pronti sono a trapassar lo rio,

ché la divina giustizia li sprona,

sì che la tema si volve in disio.


Quinci non passa mai anima buona;

e però, se Caron di te si lagna,

ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona».


Finito questo, la buia campagna

tremò sì forte, che de lo spavento

la mente di sudore ancor mi bagna.


La terra lagrimosa diede vento,

che balenò una luce vermiglia

la qual mi vinse ciascun sentimento;


e caddi come l'uom cui sonno piglia.

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Mecenate del Canto III

Giordano Collini

E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».

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