Canto IV

e più d'onore ancora assai mi fenno, ch'e' sì mi fecer de la loro schiera, sì ch'io fui sesto tra cotanto senno.

Argomento del canto

Il Limbo – Grandi poeti dell’antichità: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano – Altri sapienti

È la sera del 25 marzo (o 8 aprile)

Una dolorosa sospensione

Dante si risveglia per il fragore di un forte tuono senza raccontarci come abbia passato l’Acheronte. Gira gli occhi attorno, si alza e vede di essere affacciato alla cavità dell’inferno, una valle d’abisso dolorosa rimbombante di infiniti lamenti e coperta dalla nebbia.

Virgilio, pallido, lo invita a scendere con lui nel cieco mondo: “Io sarò primo, e tu sarai secondo”. “Come faccio a venire se tu, hai paura, tu che dovresti essere la mia fonte di conforto?”. Ma il pallore di Virgilio non è paura, è l’angoscia per la sorte delle anime che sono in questo primo cerchio.

Qui il dolore si esprime solo con sospiri, non con pianto perché non ci sono pene materiali. Virgilio è impaziente di spiegare a Dante il perché: “Queste anime non hanno peccato, hanno addirittura avuto dei meriti, ma in vita non hanno ricevuto il battesimo. Tra questi son io medesmo. Sanza speme vivemo in disio, non abbiamo cioè la speranza di realizzare il nostro desiderio”.

Dimmi, maestro mio, dimmi, signore, qualcuno è mai uscito da questo luogo per merito suo o di qualcun altro?”  Virgilio racconta che era da poco arrivato qui, quando Cristo scese nel limbo per portarsi in paradiso Adamo e un po’ di figure bibliche.

Un fuoco, poco lontano, ritaglia un’inaspettata semisfera di luce nel buio, l’unica dell’inferno.

Una voce chiede di rendere onore a Virgilio, l’altissimo poeta, che è tornato. È forse la voce di Omero che avanza con una spada in mano come un re, davanti a tre poeti latini: sono quattro grand’ombre che non sembrano né tristi né liete. Salutano Dante e lo accolgono nella loro schiera: sì ch’io fui sesto tra cotanto senno, poeta altissimo anche lui.

Arrivano ai piedi di un nobile castello che ha sette mura ed è difeso da un bel fiumicelloun fiumicello miracoloso che riescono a superare come fosse terra dura.

Attraversate le sette porte, si trovano in un prato verde con gente dagli occhi gravi che parla poco e con voci soavi. Da un luogo aperto, luminoso e rialzato, sono mostrati a Dante gli spiriti magni, i grandi spiriti dell’antichità di cui Dante fornisce un lungo elenco, per sua ammissione incompleto. Tra i tanti, ecco Cesare armato con gli occhi grifagnicioè come quelli di un uccello rapace, ma c’è anche -insieme ai molti personaggi storici e mitici- il Saladino, sultano d’Egitto e guerriero musulmano e altri due musulmani, Avicenna e Averroé, entrambi medici e filosofi, a dimostrare l’apertura degli orizzonti culturali di Dante. C’è anche il maestro di color che sanno, cioè Aristotele.

La compagnia dei sei poeti si divide. Dante e Virgilio escono dalla zona quieta nell’aria che trema, e arrivano in un posto dove non c’è più luce.

Testo del canto

Ruppemi l'alto sonno ne la testa

un greve truono, sì ch'io mi riscossi

come persona ch'è per forza desta;

 

e l'occhio riposato intorno mossi,

dritto levato, e fiso riguardai

per conoscer lo loco dov'io fossi.


Vero è che 'n su la proda mi trovai

de la valle d'abisso dolorosa

che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.


Oscura e profonda era e nebulosa

tanto che, per ficcar lo viso a fondo,

io non vi discernea alcuna cosa.

 

«Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,

cominciò il poeta tutto smorto.

«Io sarò primo, e tu sarai secondo».


E io, che del color mi fui accorto,

dissi: «Come verrò, se tu paventi

che suoli al mio dubbiare esser conforto?».


Ed elli a me: «L'angoscia de le genti

che son qua giù, nel viso mi dipigne

quella pietà che tu per tema senti.


Andiam, ché la via lunga ne sospigne».

Così si mise e così mi fé intrare

nel primo cerchio che l'abisso cigne.


Quivi, secondo che per ascoltare,

non avea pianto mai che di sospiri,

che l'aura etterna facevan tremare;


ciò avvenia di duol sanza martìri

ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,

d'infanti e di femmine e di viri.


Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi

che spiriti son questi che tu vedi?

Or vo' che sappi, innanzi che più andi,


ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,

non basta, perché non ebber battesmo,

ch'è porta de la fede che tu credi;


e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,

non adorar debitamente a Dio:

e di questi cotai son io medesmo.


Per tai difetti, non per altro rio,

semo perduti, e sol di tanto offesi,

che sanza speme vivemo in disio».


Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,

però che gente di molto valore

conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.


«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,

comincia' io per voler esser certo

di quella fede che vince ogne errore:


«uscicci mai alcuno, o per suo merto

o per altrui, che poi fosse beato?».

E quei che 'ntese il mio parlar coverto,


rispuose: «Io era nuovo in questo stato,

quando ci vidi venire un possente,

con segno di vittoria coronato.


Trasseci l'ombra del primo parente,

d'Abèl suo figlio e quella di Noè,

di Moisè legista e ubidente;


Abraàm patriarca e Davìd re,

Israèl con lo padre e co' suoi nati

e con Rachele, per cui tanto fé;


e altri molti, e feceli beati.

E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,

spiriti umani non eran salvati».


Non lasciavam l'andar perch'ei dicessi,

ma passavam la selva tuttavia,

la selva, dico, di spiriti spessi.


Non era lunga ancor la nostra via

di qua dal sonno, quand'io vidi un foco

ch'emisperio di tenebre vincia.


Di lungi n'eravamo ancora un poco,

ma non sì ch'io non discernessi in parte

ch'orrevol gente possedea quel loco.


«O tu ch'onori scienzia e arte,

questi chi son c'hanno cotanta onranza,

che dal modo de li altri li diparte?».


E quelli a me: «L'onrata nominanza

che di lor suona sù ne la tua vita,

grazia acquista in ciel che sì li avanza».


Intanto voce fu per me udita:

«Onorate l'altissimo poeta:

l'ombra sua torna, ch'era dipartita».


Poi che la voce fu restata e queta,

vidi quattro grand'ombre a noi venire:

sembianz'avevan né trista né lieta.


Lo buon maestro cominciò a dire:

«Mira colui con quella spada in mano,

che vien dinanzi ai tre sì come sire:


quelli è Omero poeta sovrano;

l'altro è Orazio satiro che vene;

Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.


Però che ciascun meco si convene

nel nome che sonò la voce sola,

fannomi onore, e di ciò fanno bene».


Così vid'i' adunar la bella scola

di quel segnor de l'altissimo canto

che sovra li altri com'aquila vola.


Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,

volsersi a me con salutevol cenno,

e 'l mio maestro sorrise di tanto;


e più d'onore ancora assai mi fenno,

ch'e' sì mi fecer de la loro schiera,

sì ch'io fui sesto tra cotanto senno.


Così andammo infino a la lumera,

parlando cose che 'l tacere è bello,

sì com'era 'l parlar colà dov'era.


Venimmo al piè d'un nobile castello,

sette volte cerchiato d'alte mura,

difeso intorno d'un bel fiumicello.


Questo passammo come terra dura;

per sette porte intrai con questi savi:

giugnemmo in prato di fresca verdura.


Genti v'eran con occhi tardi e gravi,

di grande autorità ne' lor sembianti:

parlavan rado, con voci soavi.


Traemmoci così da l'un de' canti,

in loco aperto, luminoso e alto,

sì che veder si potien tutti quanti.


Colà diritto, sovra 'l verde smalto,

mi fuor mostrati li spiriti magni,

che del vedere in me stesso m'essalto.


I' vidi Eletra con molti compagni,

tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea,

Cesare armato con li occhi grifagni.


Vidi Cammilla e la Pantasilea;

da l'altra parte, vidi 'l re Latino

che con Lavina sua figlia sedea.


Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,

Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia;

e solo, in parte, vidi 'l Saladino.


Poi ch'innalzai un poco più le ciglia,

vidi 'l maestro di color che sanno

seder tra filosofica famiglia.


Tutti lo miran, tutti onor li fanno:

quivi vid'io Socrate e Platone,

che 'nnanzi a li altri più presso li stanno;

 

Democrito, che 'l mondo a caso pone,

Diogenés, Anassagora e Tale,

Empedoclès, Eraclito e Zenone;


e vidi il buono accoglitor del quale,

Diascoride dico; e vidi Orfeo,

Tulio e Lino e Seneca morale;


Euclide geomètra e Tolomeo,

Ipocràte, Avicenna e Galieno,

Averoìs, che 'l gran comento feo.


Io non posso ritrar di tutti a pieno,

però che sì mi caccia il lungo tema,

che molte volte al fatto il dir vien meno.


La sesta compagnia in due si scema:

per altra via mi mena il savio duca,

fuor de la queta, ne l'aura che trema.


E vegno in parte ove non è che luca.

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