Argomento del canto
Pluto – Avari e prodighi – Natura della Fortuna – La palude Stigia. Iracondi e accidiosi
È la notte tra il 25 e il 26 marzo (o 8-9 aprile)
“Papé Satàn, papé Satàn aleppe” queste enigmatiche parole grida rabbioso con voce rauca Pluto, misterioso custode del cerchio dove è punito il desiderio di ricchezza che mai ci rende felici. Virgilio comprende la paura di Dante e lo rassicura. Basta nominare la volontà di Dio perché Pluto, che Virgilio chiama maledetto lupo, si sgonfi come vele non più sostenute dal vento.
Scendono quindi nel quarto cerchio. La visione è come quella di due onde contrapposte, da una parte la schiera degli avari e dall’altra quella dei prodighi, chi ha compiuto cioè il peccato opposto. Sono moltissimi e irriconoscibili. Rotolano dei grossi pesi per forza di poppa, spingendoli cioè con il petto. Una volta che le due schiere sono a contatto, vengono a zuffa e si insultano reciprocamente ricordandosi gli opposti peccati per poi ricominciare la loro inutile ed eterna fatica. Dante distingue, dalla chierica, degli uomini di chiesa, papi e cardinali nei quali -dice Virgilio- l’avarizia raggiunge il culmine.
Virgilio, da maestro di morale qual è, spiega il ruolo della Fortuna che distribuisce in terra i beni materiali senza che l’uomo abbia la capacità di opporsi ai suoi continui rivolgimenti. Virgilio “imbocca” Dante della sua sapienza come se lui fosse una madre e la sapienza un cibo. La Fortuna è ministra di Dio che governa l’instabilità delle ricchezze terrene, speculare alle gerarchie angeliche che, invece, realizzano l’armonia dei cieli.
È passata la mezzanotte e devono affrettarsi perché il viaggio ha la sua tabella di marcia che Virgilio fa rispettare.
Per raggiungere il cerchio successivo, il quinto, si spostano per una via disagevole all’altezza di una fonte ribollente che si riversa in un fossato dall’acqua buia per allargarsi poi nella palude c’ha nome Stige. Qui Dante vede genti fangose, tutte nude, che si percuotono tra loro con mano, con la testa e col petto e si mordono. Sono gli iracondi, ma non sono soli: sotto l’acqua c’è gente che sospira facendo pullulare la superficie di bolle. Sono le anime degli accidiosi, coloro che furono tristi nell’aria dolce del mondo vivendo nel fumo della scontentezza così come ora si rattristano nel fango nero: è questo che gorgogliano sott’acqua senza poterlo dire con precisione.
Dopo aver percorso un grand’arco della palude, arrivano ai piedi di una torre. Sul più bello, come al solito, Dante interrompe il canto.
Testo del canto
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch'elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia».
Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è sanza cagion l'andare al cupo:
vuolsi ne l'alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo».
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.
Così scendemmo ne la quarta lacca
pigliando più de la dolente ripa
che 'l mal de l'universo tutto insacca.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant'io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?
Come fa l'onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s'intoppa,
così convien che qui la gente riddi.
Qui vid'i' gente più ch'altrove troppa,
e d'una parte e d'altra, con grand'urli,
voltando pesi per forza di poppa.
Percoteansi 'ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».
Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l'opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand'era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra.
E io, ch'avea lo cor quasi compunto,
dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra».
Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l'abbaia
quando vegnono a' due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.
Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio».
E io: «Maestro, tra questi cotali
dovre' io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali».
Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi
ad ogne conoscenza or li fa bruni.
In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d'i ben che son commessi a la fortuna,
per che l'umana gente si rabbuffa;
ché tutto l'oro ch'è sotto la luna
e che già fu, di quest'anime stanche
non poterebbe farne posare una».
«Maestro mio», diss'io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v'offende!
Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì ch'ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d'uno in altro sangue,
oltre la difension d'i senni umani;
per ch'una gente impera e l'altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l'angue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue;
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest'è colei ch'è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s'è beata e ciò non ode:
con l'altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.
Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta».
Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva
sovr'una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.
L'acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l'onde bige,
intrammo giù per una via diversa.
In la palude va c'ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand'è disceso
al piè de le maligne piagge grige.
E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co' denti a brano a brano.
Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
l'anime di color cui vinse l'ira;
e anche vo' che tu per certo credi
che sotto l'acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest'acqua al summo,
come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.
Fitti nel limo, dicon: «Tristi fummo
ne l'aere dolce che dal sol s'allegra,
portando dentro accidioso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra».
Quest'inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra».
Così girammo de la lorda pozza
grand'arco tra la ripa secca e 'l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d'una torre al da sezzo.
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