Argomento del canto
Passaggio dello Stige: Flegias – Filippo Argenti – La città di Dite con i suoi diavoli
Sono le prime ore del 26 marzo (o 9 aprile). Sabato Santo
Due fiammette sulla cima dell’alta torre e un’altra che risponde da lontano annunciano l’arrivo su le onde fangose, tra il fummo della palude Stigia, di una nave piccioletta condotta da un solo marinaio, l’iroso traghettatore Flegias.
Virgilio sale su questa barca con Dante che, con il peso del suo corpo, ne fa immergere la chiglia. Dalla morta gora, cioè dalla palude stagnante, si para di fronte a loro un pien di fango che individua Dante come vivo. Il dialogo tra i due si carica subito di aggressività: “Rimani lì a soffrire, ti ho riconosciuto!” conclude con rabbia Dante. Il dannato protende le due mani verso la barca con aria minacciosa. Virgilio: “Via costà con li altri cani!”. E poi Virgilio, a sorpresa, abbraccia e bacia Dante: non succederà più! Si complimenta con lui e con la madre che l’ha generato della giusta ira nei confronti di questo arrogante dannato. Dante non ha più freno: desidera vederlo soffrire e Virgilio legittima questo desiderio che è presto soddisfatto. Le fangose genti ne fanno strazio al grido: “A Filippo Argenti!”. Solo a questo punto Dante ci ha svelato l’identità di questo fiorentino, del partito dei Neri e appartenente a una famiglia a lui fortemente avversa. Lasciamo Filippo Argenti nella palude a mordersi da sé con il ringraziamento di Dante a Dio per la giusta pena.
Il buon maestro Virgilio preannuncia, dalla barca, la Città di Dite con il suo grande stuolo di diavoli. i primi. Torri vermiglie come se di foco uscite, mura che sembrano di ferro, profonde fosse attorno. Flegias li sbarca all’intrata.
Sulle porte della città più di mille diavoli stizzosamente si interrogano: “Chi è questo che va da vivo per il regno de la morta gente?”. Virgilio, per spiegare quale sia la volontà di Dio, chiede loro un colloquio privato che i diavoli accettano a patto che Dante, che è stato così ardito, se ne ritorni da solo per la folle strada. Potete immaginare come Dante si sconforti alle parole maladette tanto da chiedere al suo duca di ritornare indietro insieme, subito, velocemente. Ma il dolce padre lo fa attendere. Non è lungo il colloquio con i diavoli. Le porte della città gli vengono chiuse in faccia e Virgilio ritorna da Dante con gli occhi a la terra, privo d’ogni baldanza, ma sicuro di farcela perché arriverà qualcuno di potente che consentirà loro il passaggio.
Testo del canto
Io dico, seguitando, ch'assai prima
che noi fossimo al piè de l'alta torre,
li occhi nostri n'andar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre
e un'altra da lungi render cenno
tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre.
E io mi volsi al mar di tutto 'l senno;
dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell'altro foco? e chi son quei che 'l fenno?».
Ed elli a me: «Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s'aspetta,
se 'l fummo del pantan nol ti nasconde».
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l'aere snella,
com'io vidi una nave piccioletta
venir per l'acqua verso noi in quella,
sotto 'l governo d'un sol galeoto,
che gridava: «Or se' giunta, anima fella!».
«Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto».
Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegiàs ne l'ira accolta.
Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand'io fui dentro parve carca.
Tosto che 'l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l'antica prora
de l'acqua più che non suol con altrui.
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?».
E io a lui: «S'i' vegno, non rimango;
ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango».
E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto».
Allor distese al legno ambo le mani;
per che 'l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!».
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi 'l volto, e disse: «Alma sdegnosa,
benedetta colei che 'n te s'incinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s'è l'ombra sua qui furiosa.
Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!».
E io: «Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago».
Ed elli a me: «Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disio convien che tu goda».
Dopo ciò poco vid'io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co' denti.
Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,
per ch'io avante l'occhio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
s'appressa la città c'ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo».
E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
ch'entro l'affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno».
Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui è l'intrata».
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?».
E 'l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno,
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada,
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai
che li ha' iscorta sì buia contrada».
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
«O caro duca mio, che più di sette
volte m'hai sicurtà renduta e tratto
d'alto periglio che 'ncontra mi stette,
non mi lasciar», diss'io, «così disfatto;
e se 'l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l'orme nostre insieme ratto».
E quel segnor che lì m'avea menato,
mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato.
Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch'i' non ti lascerò nel mondo basso».
Così sen va, e quivi m'abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch'a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que' nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase,
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
«Chi m'ha negate le dolenti case!».
E a me disse: «Tu, perch'io m'adiri,
non sbigottir, ch'io vincerò la prova,
qual ch'a la difension dentro s'aggiri.
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l'usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr'essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l'erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta».
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