Canto XIX
Cerchio VIII, Malebolge – Terza bolgia: i simoniaci – Niccolò III in attesa di Bonifacio VIII e Clemente V – Invettiva di Dante contro i papi simoniaci
Poco dopo il sorgere del sole del 26 marzo (o 9 aprile). Sabato Santo
I simoniaci, quelli che per oro e per argento fanno mercato delle cose di Dio, sono duramente condannati da Dante che inizia il canto apostrofandoli rapaci e compiacendosi della somma sapienza che li punisce in questa terza bolgia. Al colmo dell’arco che la sovrasta vede la pietra livida piena di fori tondi e della stessa larghezza dei battezzatóri del suo bel San Giovanni, il battistero di Firenze.
Fuori da questi fori i peccatori, che vi sono sotterrati come pali, sporgono solo con i piedi e le gambe fino alle cosce. Le piante dei piedi sono accese da una fiammella che si muove dai calcagni a le punte. Guizzano tutti con forza le giunture delle ginocchia ed esprimono così il loro pianto, ma uno lo fa più degli altri e la sua fiamma è più rossa. Virgilio si offre di portare Dante giù dal ponte perché possa fare diretta conoscenza dell’anima interpretando, ancora una volta, un suo pensiero segreto. Lo tiene attaccato alla sua anca e lo depone al foro del peccatore. Dante si avvicina e parla all’anima come fa il frate confessore con l’assassino condannato a essere sepolto a testa in giù: “Sei tu già qui, Bonifacio?” grida l’anima lasciando Dante quasi scornato. C’è un equivoco che Virgilio aiuta a chiarire: chi parla è papa Niccolò III Orsini che attende l’arrivo di papa Bonifacio VIII. Dante viene confuso proprio con un suo avversario politico, papa Bonifacio appunto, responsabile indirettamente del suo esilio. All’arrivo di Bonifacio, Niccolò cascherà giù insieme agli altri che lo precedettero simoneggiando. Arriverà poi un pastor sanza legge, un altro papa, debole nei confronti del re di Francia. Sarà Clemente V. Con queste parole di Niccolò III, Dante riesce a mettere all’inferno anche due papi a lui contemporanei, non ancora morti nel 1300 quando ambienta il suo viaggio.
Dante, per sua ammissione forse troppo folle, inveisce contro i papi simoniaci: Cristo non ha chiesto denaro a san Pietro quando gli ha affidato le somme chiavi e se non fosse per reverenza nei confronti di queste, Dante userebbe parole ancor più gravi contro la loro avarizia. Lo stesso san Giovanni nell’Apocalisse si è accorto del puttaneggiar della Chiesa per colpa dei suoi cattivi mariti, i papi troppo asserviti ai re e a calcoli economici e di potere. Mentre gli canta tali note, Niccolò o per ira o per rimorso di coscienza si dimena forte con i piedi. Virgilio approva compiaciuto le parole vere espresse da Dante, lo prende adesso in braccio a sé distretto e risale da dove è sceso fino all’arco sulla quarta bolgia dove lo depone, soavemente per come possibile, di fronte a un nuovo spettacolo.
Testo del canto
O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.
O somma sapienza, quanta è l'arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!
Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d'un largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi né maggiori
che que' che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d'i battezzatori;
l'un de li quali, ancor non è molt'anni,
rupp'io per un che dentro v'annegava:
e questo sia suggel ch'ogn'omo sganni.
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
d'un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l'altro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.
«Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti»,
diss'io, «e cui più roggia fiamma succia?».
Ed elli a me: «Se tu vuo' ch'i' ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de' suoi torti».
E io: «Tanto m'è bel, quanto a te piace:
tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace».
Allor venimmo in su l'argine quarto:
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.
Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.
«O qual che se' che 'l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa»,
comincia' io a dir, «se puoi, fa motto»
Io stava come 'l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto,
richiama lui, per che la morte cessa.
Ed el gridò: «Se' tu già costì ritto,
se' tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se' tu sì tosto di quell'aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a 'nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?».
Tal mi fec'io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch'è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.
Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
«Non son colui, non son colui che credi»;
e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: «Dunque che a me richiedi?
Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch'i' fui vestito del gran manto;
e veramente fui figliuol de l'orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l'avere e qui me misi in borsa.
Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.
Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch'i' credea che tu fossi
allor ch'i' feci 'l sùbito dimando.
Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi
e ch'i' son stato così sottosopra,
ch'el non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di più laida opra
di ver' ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.
Novo Iasón sarà, di cui si legge
ne' Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge».
Io non so s'i' mi fui qui troppo folle,
ch'i' pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non «Viemmi retro».
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l'anima ria.
Però ti sta, ché tu se' ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch'esser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse ch'ancor lo mi vieta
la reverenza delle somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor s'accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l'acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v'avete Dio d'oro e d'argento;
e che altro è da voi a l'idolatre,
se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
E mentr'io li cantava cotai note,
o ira o coscienza che 'l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.
I' credo ben ch'al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.
Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s'ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.
Né si stancò d'avermi a sé distretto,
sì men portò sovra 'l colmo de l'arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.
Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.
Indi un altro vallon mi fu scoperto.
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