Argomento del canto
Terzo girone del settimo cerchio: violenti contro l’Arte, gli usurai – Gerione- Discesa all’ottavo cerchio
Alba del 26 marzo (o 9 aprile). Sabato Santo
L’ombra che sale è la “fiera con la coda aguzza che tutto il mondo appuzza, sozza imagine della frode”, avverte Virgilio che le fa cenno di avvicinarsi all’argine di pietra. Solo la coda è nel vuoto come fanno le barche che parte sono in acqua e parte sono in terra o il castoro quando pesca: ha la faccia d’uom giusto, nel resto del corpo la pelle d’un serpente, due zampe artigliate e pilose e sul dorso e sul petto arabeschi rotondi ancora più colorati e complessi di quelli nei drappi dei Tartari e dei Turchi. La sua coda guizza, torcendo in sú la punta con una velenosa forbice come uno scorpione.
Virgilio, facendo attenzione a evitare il fuoco, conduce alla bestia malvagia Dante che, poco più oltre, sulla sabbia, vede gente seduta vicina al burrone del settimo cerchio: “Perché tu abbia conoscenza completa di questo girone, va e ragiona con loro, ma in fretta, mentre io parlo con questa bestia perché ci conceda le sue forti spalle”. Dante si muove tutto solo presso la gente mesta che piange seduta e si agita di qua, di là per evitare la pioggia di fuoco come fanno i cani quando sono morsi o da pulci o da mosche o da tafani. Non riconosce nessuno, ma s’accorge che dal collo a ciascuno pende una borsa con un certo colore e certo segno che i dannati guardano come a saziarsi. Sono gli stemmi di famiglie di usurai, due di Firenze e una di Padova, quella degli Scrovegni, con una scrofa azzurra e grossa sul sacchetto bianco. In modo sgarbato, avendolo riconosciuto come ancora vivo, il padovano gli annuncia che presto arriverà vicino a lui un concittadino, Vitaliano, e anche un altro fiorentino, il cavalier sovrano. Guarda un po’ chi fanno cavaliere a Firenze... Conclude il suo discorso con una linguaccia come un bue. Dante, temendo di far attendere troppo Virgilio, lascia le anime. Per inciso, è riuscito a sistemare all’inferno due che nel 1300 non erano ancora morti...
Il duca è salito già su la groppa del fiero animale e lo invita, premuroso, a prendere posto nel mezzo in modo che la coda non possa fargli male. Dante trema come se avesse la febbre della malaria, ma per non vergognarsi di fronte al buon segnor si fa forte. Si assetta su quelle spallacce desiderando di essere abbracciato. Virgilio, che gli legge nel pensiero, lo fa prontamente. “Gerione, muoviti pensando bene al nuovo peso”, intima Virgilio alla bestia che si muove indietreggiando come una navicella, nuotando lenta lenta e ruotando verso il basso. La paura di Dante è come non mai: vede solo la fiera e l’aria d’ogni parte di sotto gli soffia sul viso. Sente l’orribile scroscio della cascata del Flegetonte e altri pianti così che si stringe più forte tremando al dorso di Gerione e guarda sotto. Come un falcone disceso a terra deluso dalla mancata caccia, Gerione li scarica e si dilegua come una freccia.
Testo del canto
«Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti, e rompe i muri e l'armi!
Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!».
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda
vicino al fin d'i passeggiati marmi.
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e 'l busto,
ma 'n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d'uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d'un serpente tutto l'altro fusto;
due branche avea pilose insin l'ascelle;
lo dosso e 'l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.
Come tal volta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero s'assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch'a guisa di scorpion la punta armava.
Lo duca disse: «Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca».
Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.
Quivi 'l maestro «Acciò che tutta piena
esperienza d'esto giron porti»,
mi disse, «va, e vedi la lor mena.
Li tuoi ragionamenti sian là corti:
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti».
Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
è di qua, di là soccorrien con le mani
quando a' vapori, e quando al caldo suolo:
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo, or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne' quali 'l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch'avea certo colore e certo segno,
e quindi par che 'l loro occhio si pasca.
E com'io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d'un leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un'altra come sangue rossa,
mostrando un'oca bianca più che burro.
E un che d'una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: «Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perché se' vivo anco,
sappi che 'l mio vicin Vitaliano
sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fiate mi 'ntronan li orecchi
gridando: «Vegna 'l cavalier sovrano,
che recherà la tasca con tre becchi!».
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che 'l naso lecchi.
E io, temendo no 'l più star crucciasse
lui che di poco star m'avea 'mmonito,
torna'mi in dietro da l'anime lasse.
Trova' il duca mio ch'era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: «Or sie forte e ardito.
Omai si scende per sì fatte scale:
monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male».
Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo
de la quartana, c'ha già l'unghie smorte,
e triema tutto pur guardando 'l rezzo,
tal divenn'io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
I' m'assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com'io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'.
Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch'i' montai
con le braccia m'avvinse e mi sostenne;
e disse: «Gerion, moviti omai:
le rote larghe e lo scender sia poco:
pensa la nova soma che tu hai».
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch'al tutto si sentì a gioco,
là 'v'era 'l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l'aere a sé raccolse.
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse;
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,
che fu la mia, quando vidi ch'i' era
ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.
Ella sen va notando lenta lenta:
rota e discende, ma non me n'accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi 'n giù la testa sporgo.
Allor fu' io più timido a lo stoscio,
però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti;
ond'io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e 'l girar per li gran mali
che s'appressavan da diversi canti.
Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;
così ne puose al fondo Gerione
al piè al piè de la stagliata rocca
e, discarcate le nostre persone,
si dileguò come da corda cocca.
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