Argomento del canto
Cerchio VIII, Malebolge – Quarta bolgia: gli indovini – Anfiarao, Tiresia, Aronte – Manto e l’origine di Mantova – Altri indovini
Subito dopo le 6 del mattino del 26 marzo (o 9 aprile). Sabato Santo
Sommersi chiama Dante i dannati sprofondati sotto terra nel regno del male. Per il vallon tondo della quarta bolgia, col passo lento delle processioni, avanzano, tacendo e lagrimando, peccatori che hanno mirabilmente stravolto il collo. Il loro volto è in direzione delle reni e il loro pianto li bagna nella fessura delle natiche. Possono camminare solo all’in dietro perché non vedono dinanzi.
Rivolgendosi al lettore, Dante gli augura di avere beneficio dal suo poema, ma anche si chiede come potesse non piangere lui stesso per pietà. L’intervento di Virgilio è di rimprovero duro e deciso: “Qui vive la pietà quand’è ben morta” cioè è scellerato provare pietà, come fanno gli sciocchi, per chi è giustamente punito da Dio.
Virgilio parla a lungo in questo canto per condannare senza appello gli indovini, che rimangono tutti muti, e per sfatare, in questo modo, presso i lettori contemporanei di Dante la falsa credenza che lo voleva mago. Gli indovini vollero troppo vedere davante e ora guardano e procedono indietro. Così è per Anfiarao, un personaggio mitologico legato al mito di Tebe come lo è Tiresia che divenne femmina per sette anni prima di ritornare maschio com’era. Anche lui è qui nominato insieme all’etrusco Aronta, un altro personaggio letterario, ma a chi Virgilio dedica più spazio nella presentazione è Manto, figlia di Tiresia, che ora vedono con le sue trecce sciolte coprirsi le mammelle. Fuggita da Tebe dopo la morte del padre e dopo aver vagato per lo mondo, si stanziò dove Virgilio nascerà, a Mantova, dandole il nome. Per questo Virgilio indugia sulla sua storia. Per delineare il luogo della futura città, la descrizione geografica è ampia: dal nord delle Alpi tedesche lo sguardo, come un obiettivo cinematografico, ci conduce a sud al laco di Garda, alimentato dalle acque anche della Val Camonica e sotto la giurisdizione di tre diocesi, quella trentina, veronese e di Brescia. Nomina anche Peschiera, Govérnolo, il Po. Manto si fermò in una terra impaludata dal Mincio e senza abitanti. Qui visse, morì e fu sepolta e qui gli uomini che stavano sparti nei dintorni si raccolsero grazie alle qualità difensive del luogo dando origine a Mantova. “Perciò -conclude Virgilio- rigetta ogni altra menzogna sull’origine della mia terra”. Dante non può che rassicurarlo e gli chiede altri nomi. Virgilio gli indica uno con la barba su le spalle brune, Eurípilo, un personaggio dell’Eneide che Dante conosce tutta quanta, due della corte di Federico II, uno di professione calzolaio e delle ‘ndivine che fecero malie con erbe e con imago.
Ora bisogna andare. Lo sa bene Virgilio, che dà sempre il tempo del viaggio e che, con competenza astronomica anche nel buio dell’inferno, ricorda che sono circa le sei del mattino perché la luna tonda del giorno precedente, quella che ha aiutato Dante nella selva fonda, sta tramontando presso Siviglia.
Testo del canto
Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon ch'è d'i sommersi.
Io era già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d'angoscioso pianto;
e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.
Come 'l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso;
ché da le reni era tornato 'l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché 'l veder dinanzi era lor tolto.
Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com'io potea tener lo viso asciutto,
quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.
Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se' tu de li altri sciocchi?
Qui vive la pietà quand'è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
s'aperse a li occhi d'i Teban la terra;
per ch'ei gridavan tutti: «Dove rui,
Anfiarao? perché lasci la guerra».
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
Mira c'ha fatto petto de le spalle:
perché volle veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.
Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne
cangiandosi le membra tutte quante;
e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che riavesse le maschili penne.
Aronta è quel ch'al ventre li s'atterga,
che ne' monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,
ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e 'l mar no li era la veduta tronca.
E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,
Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu'io;
onde un poco mi piace che m'ascolte.
Poscia che 'l padre suo di vita uscìo,
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.
Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l'Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c'ha nome Benaco.
Per mille fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l'acqua che nel detto laco stagna.
Loco è nel mezzo là dove 'l trentino
pastore e quel di Brescia e 'l veronese
segnar poria, s'e' fesse quel cammino.
Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva 'ntorno più discese.
Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che 'n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi.
Tosto che l'acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.
Non molto ha corso, ch'el trova una lama,
ne la qual si distende e la 'mpaluda;
e suol di state talor essere grama.
Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d'abitanti nuda.
Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Li uomini poi che 'ntorno erano sparti
s'accolsero a quel loco, ch'era forte
per lo pantan ch'avea da tutte parti.
Fer la città sovra quell'ossa morte;
e per colei che 'l loco prima elesse,
Mantua l'appellar sanz'altra sorte.
Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.
Però t'assenno che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi».
E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti.
Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede».
Allor mi disse: «Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu - quando Grecia fu di maschi vòta,
sì ch'a pena rimaser per le cune -
augure, e diede 'l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.
Euripilo ebbe nome, e così 'l canta
l'alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.
Quell'altro che ne' fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe 'l gioco.
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch'avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.
Vedi le triste che lasciaron l'ago,
la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.
Ma vienne omai, ché già tiene 'l confine
d'amendue li emisperi e tocca l'onda
sotto Sobilia Caino e le spine;
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de' ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».
Sì mi parlava, e andavamo introcque.
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