Argomento del canto
Cerchio VIII, Malebolge – Quinta bolgia: i barattieri – Anonimo peccatore di Lucca – I Malebranche – Trattative tra Virgilio e Malacoda – La scorta dei diavoli
Verso le 7 del mattino del 26 marzo (o 9 aprile). Sabato Santo
Di ponte in ponte, parlando del più e del meno, arrivano al colmo di quello sulla quinta fessura di Malebolge che vedono incredibilmente oscura. Sembra che, come nell’arsenale de’ Viniziani, vi bolla una tenace pece, quella per riparare le navi non sane. Dante guarda fisamente perché vede solo bolle quando Virgilio lo allerta -“Guarda, guarda!”- e lo trae a sé. Un diavol nero con l’ali aperte corre leggero sul ponte. Come sembra feroce! Sulla spalla porta piegato un peccatore che tiene fermo per i tendini dei piedi. Chiama gli altri diavoli: “O Malebranche, ecco un magistrato di Lucca! Mettetelo sotto, che torno in quella città che è ben fornita di barattieri”. Sono qui puniti, infatti, coloro che rivestono cariche pubbliche e, per li denar, si fanno corrompere. Proprio la baratteria è l’infamante accusa che colpisce Dante e lo costringe all’esilio. Il diavolo butta giù nella pece l’anonimo peccatore che s’attuffa e torna sú deriso dai diavoli: “Se non vuoi assaggiare i nostri graffi, non venire a galla!” Poi l’addentano con più di cento ferri uncinati come i cuochi fanno attuffare la carne ai loro sguatteri perché non galleggi.
Virgilio, il buon maestro, acquatta Dante dietro una roccia intanto che va, con aria decisa, dai diavoli. L’ha già fatto nel passato! Stia Dante tranquillo! Non deve essere facile però quando i diavoli escono di sotto al ponticello e volgono contro Virgilio tutti gli arpioni. Ma lui grida: “Calmi! Nessuno usi l’uncino prima che uno di voi venga a parlarmi!” Delegano, con un urlo unanime, Malacoda che avanza brontolando, ma il maestro ha un argomento decisivo: il volere divino! Il diavolo perde la boria, si lascia cascare l’uncino a’piedi e ordina di non ferirlo. Virgilio chiede a Dante, che è ancora nascosto quatto quatto, di raggiungerlo ormai sicuro. Ma i diavoli si fanno avanti e Dante teme che non mantengano il patto. Si accosta con tutta la persona al suo duca e non torce li occhi dalle loro facce per nulla rassicuranti. Abbassano gli arpioni, ma uno dice all’altro: “Vuo’ che ‘l tocchi sul groppone?”. Interviene Malacoda a fermare Scarmiglione e a informare i due che l’arco sulla sesta bolgia è crollato e che, per trovarne uno integro, bisogna cambiare strada. Il crollo è avvenuto in coincidenza del terremoto che ha scosso la terra nell’ora della morte di Gesù. “Accompagnatevi con questi diavoli: devono controllare che i dannati non si sollevino dalla pece. Non vi faranno male” rassicura Malacoda che fa un buffo elenco dei dieci chiamati all’impresa guidata da Barbariccia: Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Libicoccho, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante dovranno accompagnare i due al prossimo ponte intero. Dante è terrorizzato e propone a Virgilio di muoversi soli, sanza scorta. Lui non la chiede. Si fida di Virgilio che sembra non accorgersi di come digrignano li denti e minacciano con gli occhi. “Non devi preoccuparti. Lo fanno -garantisce Virgilio- per li lessi dolenti, i dannati bolliti nella pece”.
I diavoli si mettono in moto con una pernacchia indirizzata al loro capo che ha del cul fatto trombetta.
Testo del canto
Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
venimmo; e tenavamo il colmo, quando
restammo per veder l'altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.
Quale ne l'arzanà de' Viniziani
bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno - in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più viaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa -;
tal, non per foco, ma per divin'arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che 'nviscava la ripa d'ogne parte.
I' vedea lei, ma non vedea in essa
mai che le bolle che 'l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa.
Mentr'io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!»,
mi trasse a sé del loco dov'io stava.
Allor mi volsi come l'uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura sùbita sgagliarda,
che, per veder, non indugia 'l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.
Ahi quant'elli era ne l'aspetto fero!
e quanto mi parea ne l'atto acerbo,
con l'ali aperte e sovra i piè leggero!
L'omero suo, ch'era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l'anche,
e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo.
Del nostro ponte disse: «O Malebranche,
ecco un de li anzian di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch'i' torno per anche
a quella terra che n'è ben fornita:
ogn'uom v'è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar vi si fa ita».
Là giù 'l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel s'attuffò, e tornò sù convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto:
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo' di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio».
Poi l'addentar con più di cento raffi,
disser: «Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi».
Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli.
Lo buon maestro «Acciò che non si paia
che tu ci sia», mi disse, «giù t'acquatta
dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia;
e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch'i' ho le cose conte,
perch'altra volta fui a tal baratta».
Poscia passò di là dal co del ponte;
e com'el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu d'aver sicura fronte.
Con quel furore e con quella tempesta
ch'escono i cani a dosso al poverello
che di sùbito chiede ove s'arresta,
usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt'i runcigli;
ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!
Innanzi che l'uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l'un di voi che m'oda,
e poi d'arruncigliarmi si consigli».
Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»;
per ch'un si mosse - e li altri stetter fermi -,
e venne a lui dicendo: «Che li approda?».
«Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venuto», disse 'l mio maestro,
«sicuro già da tutti vostri schermi,
sanza voler divino e fato destro?
Lascian'andar, ché nel cielo è voluto
ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro.
Allor li fu l'orgoglio sì caduto,
ch'e' si lasciò cascar l'uncino a' piedi,
e disse a li altri: «Omai non sia feruto».
E 'l duca mio a me: «O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi».
Per ch'io mi mossi, e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch'io temetti ch'ei tenesser patto;
così vid'io già temer li fanti
ch'uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.
I' m'accostai con tutta la persona
lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi
da la sembianza lor ch'era non buona.
Ei chinavan li raffi e «Vuo' che 'l tocchi»,
diceva l'un con l'altro, «in sul groppone?».
E rispondien: «Sì, fa che gliel'accocchi!».
Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto,
e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!».
Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l'arco sesto.
E se l'andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face.
Ier, più oltre cinqu'ore che quest'otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.
Io mando verso là di questi miei
a riguardar s'alcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei».
«Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina»,
cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.
Libicocco vegn'oltre e Draghignazzo,
Ciriatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo.
Cercate 'ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l'altro scheggio
che tutto intero va sovra le tane».
«Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?»,
diss'io, «deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio.
Se tu se' sì accorto come suoli,
non vedi tu ch'e' digrignan li denti,
e con le ciglia ne minaccian duoli?».
Ed elli a me: «Non vo' che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti».
Per l'argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.
I nostri Mecenate
SicComeDante è un progetto gestito dall'Associazione Culturale inPrimis - APS. Se vuoi sostenere questo progetto, puoi fare una donazione e, a seconda dell'importo, sarai pubblicato tra i nostri Mecenate accanto al tuo canto, terzina o verso preferito. Scopri di più o dona ora.