Canto XXV

Poi s'appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, né l'un né l'altro già parea quel ch'era

Argomento del canto

Cerchio VIII, Malebolge – Settima bolgia: i ladri - Punizione di Vanni Fucci – Il centauro Caco – Cinque ladri fiorentini e sorprendenti metamorfosi: Cianfa, Agnolo, Francesco Cavalcanti, Buoso, Puccio Sciancato.


Verso le 11 del mattino del 26 marzo (o 9 aprile). Sabato Santo


Metamorfosi stupefacenti

Alla fine de le sue parole, il ladro alza le mani in un gesto osceno gridando: “Questo, Dio, è per te”. Dante sente amiche le serpi, una della quali avvolge il collo a Vanni Fucci come per impedirgli di parlare e un’altra le braccia immobilizzandogliele! Per i cerchi de lo ‘nferno Dante non ha visto spirto tanto superbo contro Dio quanto questo pistoiese, frutto della corruzione antica della sua città.

Passa ora un centauro pieno di rabbia nei confronti del dannato ribelle che se ne è andato senza altre parole. Ha tante bisce sulla groppa e sovra le spalle un draco con l’ali aperte che sputa fuoco. È Caco, separato dagli altri violenti centauri del Flegetonte perché, con un inganno, fece un furto di bestie a Ercole che lo uccise con la sua mazza. Mentre Virgilio ne parla e Caco se ne va, arrivano sotto di loro tre spiriti che richiamano l’attenzione. Dante non li riconosce, ma sente uno che nomina un altro: “Dove sarà rimasto Cianfa?”. Si allerta perché il nome è quello di un fiorentino e con il dito su dal mento al naso fa segno a Virgilio di tacere.

Ci aspettano cose così meravigliose che lo stesso Dante, pur avendole viste, si sente incredulo... Ecco un serpente con sei piè che si lancia addosso a uno dei tre. Co’ piè di mezzo si avvinghia come un’edera alla pancia, con quelli davanti alle braccia, gli addenta le due guance, distende i piedi posteriori sulle cosce tra cui infila la coda che distende dietro sopra le reni. Il loro colore si confonde come fossero di calda cera. Nessuno è più quello che era prima. I due che sono con lui assistono sgomenti: “Agnolo, come ti trasformi!”. Si produce un essere mescolato che non assomiglia più né all’uomo né al serpente e procede con lento passo.

Veloce come ‘l ramarro che al sole sferzante attraversa la via, un serpentello, livido e nero come gran di pepe, trafigge l’ombelico di uno dei due che, feruto, sbadiglia come assonnato o febbricitante. Fumo esce dalla bocca del serpente caduto a terra e dalla piaga del dannato.

I grandi autori dell’antichità che hanno raccontato metamorfosi mai ne hanno raccontato una doppia. Dante ne è consapevole e dichiara la sua superiorità poetica nella descrizione dettagliata e raccapricciante del serpente che si fa uomo e contemporaneamente dell’uomo che si fa serpente. Tutto avviene nel fumo senza che i due esseri smettano di guardarsi negli occhi empi. L’anima che è divenuta rettile se ne va suffolando e l’altra dietro parlando sputa: “È Buoso ora a correre carponi come me prima”. Il terzo che del gruppo non è stato mutato è anch’egli, come quelli nominati, un ladro fiorentino che Dante riconosce. Cinque in tutto se si aggiunge il serpentello, prima uomo, con la cui identità si chiude il canto.

Testo del canto

Al fine de le sue parole il ladro

le mani alzò con amendue le fiche,

gridando: «Togli, Dio, ch'a te le squadro!».


Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,

perch'una li s'avvolse allora al collo,

come dicesse 'Non vo' che più diche';


e un'altra a le braccia, e rilegollo,

ribadendo sé stessa sì dinanzi,

che non potea con esse dare un crollo.


Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi

d'incenerarti sì che più non duri,

poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?


Per tutt'i cerchi de lo 'nferno scuri

non vidi spirto in Dio tanto superbo,

non quel che cadde a Tebe giù da' muri.


El si fuggì che non parlò più verbo;

e io vidi un centauro pien di rabbia

venir chiamando: «Ov'è, ov'è l'acerbo?».


Maremma non cred'io che tante n'abbia,

quante bisce elli avea su per la groppa

infin ove comincia nostra labbia.


Sovra le spalle, dietro da la coppa,

con l'ali aperte li giacea un draco;

e quello affuoca qualunque s'intoppa.


Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,

che sotto 'l sasso di monte Aventino

di sangue fece spesse volte laco.


Non va co' suoi fratei per un cammino,

per lo furto che frodolente fece

del grande armento ch'elli ebbe a vicino;


onde cessar le sue opere biece

sotto la mazza d'Ercule, che forse

gliene diè cento, e non sentì le diece».


Mentre che sì parlava, ed el trascorse

e tre spiriti venner sotto noi,

de' quali né io né 'l duca mio s'accorse,


se non quando gridar: «Chi siete voi?»;

per che nostra novella si ristette,

e intendemmo pur ad essi poi.


Io non li conoscea; ma ei seguette,

come suol seguitar per alcun caso,

che l'un nomar un altro convenette,


dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;

per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento,

mi puosi 'l dito su dal mento al naso.


Se tu se' or, lettore, a creder lento

ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia,

ché io che 'l vidi, a pena il mi consento.


Com'io tenea levate in lor le ciglia,

e un serpente con sei piè si lancia

dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.


Co' piè di mezzo li avvinse la pancia,

e con li anterior le braccia prese;

poi li addentò e l'una e l'altra guancia;


li diretani a le cosce distese,

e miseli la coda tra 'mbedue,

e dietro per le ren sù la ritese.


Ellera abbarbicata mai non fue

ad alber sì, come l'orribil fiera

per l'altrui membra avviticchiò le sue.


Poi s'appiccar, come di calda cera

fossero stati, e mischiar lor colore,

né l'un né l'altro già parea quel ch'era:


come procede innanzi da l'ardore,

per lo papiro suso, un color bruno

che non è nero ancora e 'l bianco more.


Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno

gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!

Vedi che già non se' né due né uno».


Già eran li due capi un divenuti,

quando n'apparver due figure miste

in una faccia, ov'eran due perduti.


Fersi le braccia due di quattro liste;

le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso

divenner membra che non fuor mai viste.


Ogne primaio aspetto ivi era casso:

due e nessun l'imagine perversa

parea; e tal sen gio con lento passo.


Come 'l ramarro sotto la gran fersa

dei dì canicular, cangiando sepe,

folgore par se la via attraversa,


sì pareva, venendo verso l'epe

de li altri due, un serpentello acceso,

livido e nero come gran di pepe;


e quella parte onde prima è preso

nostro alimento, a l'un di lor trafisse;

poi cadde giuso innanzi lui disteso.


Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse;

anzi, co' piè fermati, sbadigliava

pur come sonno o febbre l'assalisse.


Elli 'l serpente, e quei lui riguardava;

l'un per la piaga, e l'altro per la bocca

fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.


Taccia Lucano ormai là dove tocca

del misero Sabello e di Nasidio,

e attenda a udir quel ch'or si scocca.


Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio;

ché se quello in serpente e quella in fonte

converte poetando, io non lo 'nvidio;


ché due nature mai a fronte a fronte

non trasmutò sì ch'amendue le forme

a cambiar lor matera fosser pronte.


Insieme si rispuosero a tai norme,

che 'l serpente la coda in forca fesse,

e il feruto ristrinse insieme l'orme.


Le gambe con le cosce seco stesse

s'appiccar sì, che 'n poco la giuntura

non facea segno alcun che si paresse.


Togliea la coda fessa la figura

che si perdeva là, e la sua pelle

si facea molle, e quella di là dura.


Io vidi intrar le braccia per l'ascelle,

e i due piè de la fiera, ch'eran corti,

tanto allungar quanto accorciavan quelle.


Poscia li piè di retro, insieme attorti,

diventaron lo membro che l'uom cela,

e 'l misero del suo n'avea due porti.


Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela

di color novo, e genera 'l pel suso

per l'una parte e da l'altra il dipela,


l'un si levò e l'altro cadde giuso,

non torcendo però le lucerne empie,

sotto le quai ciascun cambiava muso.


Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie,

e di troppa matera ch'in là venne

uscir li orecchi de le gote scempie;


ciò che non corse in dietro e si ritenne

di quel soverchio, fé naso a la faccia

e le labbra ingrossò quanto convenne.


Quel che giacea, il muso innanzi caccia,

e li orecchi ritira per la testa

come face le corna la lumaccia;


e la lingua, ch'avea unita e presta

prima a parlar, si fende, e la forcuta

ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.


L'anima ch'era fiera divenuta,

suffolando si fugge per la valle,

e l'altro dietro a lui parlando sputa.


Poscia li volse le novelle spalle,

e disse a l'altro: «I' vo' che Buoso corra,

com'ho fatt'io, carpon per questo calle».


Così vid'io la settima zavorra

mutare e trasmutare; e qui mi scusi

la novità se fior la penna abborra.


E avvegna che li occhi miei confusi

fossero alquanto e l'animo smagato,

non poter quei fuggirsi tanto chiusi,


ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;

ed era quel che sol, di tre compagni

che venner prima, non era mutato;


l'altr'era quel che tu, Gaville, piagni.

I nostri Mecenate

SicComeDante è un progetto gestito dall'Associazione Culturale inPrimis - APS. Se vuoi sostenere questo progetto, puoi fare una donazione e, a seconda dell'importo, sarai pubblicato tra i nostri Mecenate accanto al tuo canto, terzina o verso preferito. Scopri di più o dona ora.

Mecenate del Canto XXV

Vuoi sostenere SicComeDante?
Diventa Mecenate

Mecenate della terzina

Diventa Mecenate

Mecenate del verso

Diventa Mecenate

Ricevi tutti gli aggiornamenti

Gruppo WhatsApp Iscriviti alla Newsletter