Canto XIV

Come la carne gloriosa e santa fia rivestita, la nostra persona più grata fia per esser tutta quanta

Argomento del canto

Dubbio di Dante sulla resurrezione dei corpi e festa delle anime – Spiegazione di Salomone – Una terza corona – Cielo di Marte con le anime disposte in forma di croce greca


Dopo le nove di sera del 30 marzo (13 aprile).

Il corpo nella luce

La gloriosa vita ultraterrena di Tommaso tace e a Beatrice piace, dopo lui, prendere la parola. Anticipa alle anime, prima che Dante lo abbia ancora pensato, un altro suo dubbio: “La luce di cui s’infiora la vostra sustanza rimarrà con voi etternalmente sì com’ell’è ora anche dopo che ritorneranno visibili i vostri corpi? E se rimane, danneggerà la vostra vista?”.

Come in un contagio collettivo di letizia tra danzatori, al discorso pronto e divoto di Beatrice, risponde la nova gioia dei santi cerchi che ruotano e cantano ancora la mirabile melodia di un inno trinitario. Chi si lamenta che qui in terra si muoia per viver in cielo, non conosce il refrigerio che offre l’etterna pioggia di grazia di questa esperienza.

Ne la luce più chiara del minor cerchio Dante sente una voce sommessa rispondere. È quella di Salomone: “Finché durerà la festa di paradiso, il nostro amore si raggerà dintorno con questa nostra veste luminosa. Come la carne gloriosa e santa rivestila nostra persona, saremo ancora più luminosi perché completi. S’accrescerà la beatitudine e anche la nostra capacità di visione. Come il tizzone di carbone si vede nella fiamma, così si vedrà nella luce la nostra carne, che ora la terra ricopre”.

Le anime nei due cerchi approvano con un “Amen” e così mostrano bene il disio dei loro corpi morti, forse non tanto per loro, ma per le mamme, per li padri e per li altri che fuor loro cari prima che fossero sempiterne anime.

Ed ecco nascere intorno una luce non ben definita che fa un giro fuori da l’altre due circunferenze: è lo Spirito Santo che si fa incandescente tanto che li occhi di Dante, vinti, non ne sopportano lo sfavillare. Ma Beatrice sì bella e ridente gli cattura la vista. Si sente sollevare, solo

con la sua donna, nel riso di fuoco de la stella di Marte, che è più rosso del solito. Con tutto ‘l core Dante si dona riconoscente a Dio. Sa che ne è accolto perché gli appaiono più splendori dentro a due raggi, bracci uguali di una croce greca nella quale lampeggia Cristo: Dante non sa trovare le parole per spiegare la memorabile visione di cui chi prende sua croce e segue Cristo potrà godere in Paradiso. Dentro i bracci, da destra e sinistra e dall’alto al basso, si muovono lumi che, scintillando forte, si congiungono e si superano come qui sulla terra tal volta i corpuscoli in un raggio di sole che interrompe l’ombra. E come il tintinno della viola o dell’arpa è percepito dolce anche da chi non distingue le note, così lungo la croce Dante sente la melode di un inno che lo rapisce senza che ne intenda il significato. Si tratta certamente di una lode alla Resurrezione dal momento che distingue le parole “Resurgi” e “Vinci”. Se ne innamora tanto che ‘nfino a lì niente lo ha mai avvinto così. Più degli occhi belli di Beatrice mirando i quali il suo disio si acquieta? Sì, perché in questo cielo non ha ancora contemplato la sua bellezza che diventa più assoluta procedendo verso l’alto.

Canto integrale

Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro

movesi l'acqua in un ritondo vaso,

secondo ch'è percosso fuori o dentro:


ne la mia mente fé sùbito caso

questo ch'io dico, sì come si tacque

la gloriosa vita di Tommaso,


per la similitudine che nacque

del suo parlare e di quel di Beatrice,

a cui sì cominciar, dopo lui, piacque:


«A costui fa mestieri, e nol vi dice

né con la voce né pensando ancora,

d'un altro vero andare a la radice.


Diteli se la luce onde s'infiora

vostra sustanza, rimarrà con voi

etternalmente sì com'ell'è ora;


e se rimane, dite come, poi

che sarete visibili rifatti,

esser porà ch'al veder non vi nòi».


Come, da più letizia pinti e tratti,

a la fiata quei che vanno a rota

levan la voce e rallegrano li atti,


così, a l'orazion pronta e divota,

li santi cerchi mostrar nova gioia

nel torneare e ne la mira nota.


Qual si lamenta perché qui si moia

per viver colà sù, non vide quive

lo refrigerio de l'etterna ploia.


Quell'uno e due e tre che sempre vive

e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno,

non circunscritto, e tutto circunscrive,


tre volte era cantato da ciascuno

di quelli spirti con tal melodia,

ch'ad ogne merto saria giusto muno.


E io udi' ne la luce più dia

del minor cerchio una voce modesta,

forse qual fu da l'angelo a Maria,


risponder: «Quanto fia lunga la festa

di paradiso, tanto il nostro amore

si raggerà dintorno cotal vesta.


La sua chiarezza séguita l'ardore;

l'ardor la visione, e quella è tanta,

quant'ha di grazia sovra suo valore.


Come la carne gloriosa e santa

fia rivestita, la nostra persona

più grata fia per esser tutta quanta;


per che s'accrescerà ciò che ne dona

di gratuito lume il sommo bene,

lume ch'a lui veder ne condiziona;


onde la vision crescer convene,

crescer l'ardor che di quella s'accende,

crescer lo raggio che da esso vene.


Ma sì come carbon che fiamma rende,

e per vivo candor quella soverchia,

sì che la sua parvenza si difende;


così questo folgór che già ne cerchia

fia vinto in apparenza da la carne

che tutto dì la terra ricoperchia;


né potrà tanta luce affaticarne:

ché li organi del corpo saran forti

a tutto ciò che potrà dilettarne».


Tanto mi parver sùbiti e accorti

e l'uno e l'altro coro a dicer «Amme!»,

che ben mostrar disio d'i corpi morti:


forse non pur per lor, ma per le mamme,

per li padri e per li altri che fuor cari

anzi che fosser sempiterne fiamme.


Ed ecco intorno, di chiarezza pari,

nascere un lustro sopra quel che v'era,

per guisa d'orizzonte che rischiari.


E sì come al salir di prima sera

comincian per lo ciel nove parvenze,

sì che la vista pare e non par vera,


parvemi lì novelle sussistenze

cominciare a vedere, e fare un giro

di fuor da l'altre due circunferenze.


Oh vero sfavillar del Santo Spiro!

come si fece sùbito e candente

a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!


Ma Beatrice sì bella e ridente

mi si mostrò, che tra quelle vedute

si vuol lasciar che non seguir la mente.


Quindi ripreser li occhi miei virtute

a rilevarsi; e vidimi translato

sol con mia donna in più alta salute.


Ben m'accors'io ch'io era più levato,

per l'affocato riso de la stella,

che mi parea più roggio che l'usato.


Con tutto 'l core e con quella favella

ch'è una in tutti, a Dio feci olocausto,

qual conveniesi a la grazia novella.


E non er'anco del mio petto essausto

l'ardor del sacrificio, ch'io conobbi

esso litare stato accetto e fausto;


ché con tanto lucore e tanto robbi

m'apparvero splendor dentro a due raggi,

ch'io dissi: «O Eliòs che sì li addobbi!».


Come distinta da minori e maggi

lumi biancheggia tra ' poli del mondo

Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;


sì costellati facean nel profondo

Marte quei raggi il venerabil segno

che fan giunture di quadranti in tondo.


Qui vince la memoria mia lo 'ngegno;

ché quella croce lampeggiava Cristo,

sì ch'io non so trovare essempro degno;


ma chi prende sua croce e segue Cristo,

ancor mi scuserà di quel ch'io lasso,

vedendo in quell'albor balenar Cristo.


Di corno in corno e tra la cima e 'l basso

si movien lumi, scintillando forte

nel congiugnersi insieme e nel trapasso:


così si veggion qui diritte e torte,

veloci e tarde, rinovando vista,

le minuzie d'i corpi, lunghe e corte,


moversi per lo raggio onde si lista

talvolta l'ombra che, per sua difesa,

la gente con ingegno e arte acquista.


E come giga e arpa, in tempra tesa

di molte corde, fa dolce tintinno

a tal da cui la nota non è intesa,


così da' lumi che lì m'apparinno

s'accogliea per la croce una melode

che mi rapiva, sanza intender l'inno.


Ben m'accors'io ch'elli era d'alte lode,

però ch'a me venìa «Resurgi» e «Vinci»

come a colui che non intende e ode.


Io m'innamorava tanto quinci,

che 'nfino a lì non fu alcuna cosa

che mi legasse con sì dolci vinci.


Forse la mia parola par troppo osa,

posponendo il piacer de li occhi belli,

ne' quai mirando mio disio ha posa;


ma chi s'avvede che i vivi suggelli

d'ogne bellezza più fanno più suso,

e ch'io non m'era lì rivolto a quelli,


escusar puommi di quel ch'io m'accuso

per escusarmi, e vedermi dir vero:

ché 'l piacer santo non è qui dischiuso,


perché si fa, montando, più sincero.

I nostri Mecenate

SicComeDante è un progetto gestito dall'Associazione Culturale inPrimis - APS. Se vuoi sostenere questo progetto, puoi fare una donazione e, a seconda dell'importo, sarai pubblicato tra i nostri Mecenate accanto al tuo canto, terzina o verso preferito. Scopri di più o dona ora.

Mecenate del Canto XIV

Vuoi sostenere SicComeDante?
Diventa Mecenate

Mecenate della terzina

Diventa Mecenate

Mecenate del verso

Diventa Mecenate

Ricevi tutti gli aggiornamenti

Gruppo WhatsApp Iscriviti alla Newsletter