Argomento del canto
Il silenzio dei beati – Dialogo con Cacciaguida: presenta sé e la Firenze del suo tempo
Dopo le nove di sera del 30 marzo (13 aprile).
Le sante corde di quella dolce lira -le anime strumento musicale di Dio- si mettono in silenzio per dare a Dante ascolto dimostrando quell’amore celeste che vale etternalmente e che è insensato perdere per amor di cosa che non dura.
Con il movimento rapido di una stella cadente, dal braccio destro di quella croce fino al suo pié, corre un astro, un’anima luminosa. Sembra foco dietro ad alabastro. È una situazione analoga a quando l’ombra pia d’Anchise incontra il figlio Enea nell’aldilà come ha raccontato Virgilio, maggior musa di Dante. Parla in latino e si rivolge a Dante chiamandolo “O sangue mio” e gli riconosce l’eccezionalità della sua impresa: “A chi mai furono aperte per due volte le porte del cielo?”.
Dante si rivolge subito alla sua donna e resta stupefatto per il sorriso che arde negli occhi suoi tal da fargli pensare con i suoi di toccar lo fondo del suo paradiso. Lo spirto aggiunge cose che Dante non può intendere tanto sono profonde: lo fa per necessità perché ‘l suo concetto va oltre le possibilità di comprensione dei mortali. La prima cosa che Dante capisce è: “Benedetto sia tu, trino e uno, che nella mia discendenza se’ tanto cortese”. Il lume prosegue: “Figlio, hai realizzato un desiderio: ti aspettavo dopo aver letto, nel grande e immutabile volume della mente divina, del tuo alto volo grazie a Beatrice che ti ha vestito delle piume adatte. Tu credi che a me giunga il tuo pensier direttamente da Dio e perciò non mi domandi ch’io sia e perché appaia tanto felice di vederti. Tu credi il vero, ma perché ‘l sacro amore divino si realizzi meglio, la voce tua sicura, balda e lieta, suoni la tua volontà e il tuo disio”.
Dante si rivolge a Beatrice che lo sente prima che lui parli. Gli fa sorridendo un cenno che fa crescer l’ali al suo desiderio di parlare: “Voi beati avete equilibrio tra caldo affetto e luminoso senno come noi mortali non abbiamo: per questo non ho abbastanza parole per ringraziare, se non col core, di questa paterna festa. Ti supplico, vivo topazio che nobiliti questa gioia preziosa della croce, di dirmi il tuo nome”.
“O fronda mia, io fui la tua radice -così risponde l’anima- Quel da cui ha origine il tuo cognome e che da più di cent’anni si trova nella cornice dei superbi fu mio figlio e tuo bisavolo: accorcia la sua permanenza in purgatorio con l’opere tue. Alla mia epoca Fiorenza stava in pace, sobria e pudica dentro la cerchia delle mura antiche. Le donne non indossavano gioielli, gonne ricamate o cintura che fossero appariscenti più che la loro persona. La figlia nascendo non facea paura al padre per la dote che oggi è consistente e da destinarsi già in tenera età. Non c’erano case disabitate e non c’era lussuria. Lo sfarzo di Firenze non aveva ancora superato quello di Roma -ma Firenze supererà Roma nella decadenza-. I cittadini autorevoli andavano cinti di cuoio e d’osso, con abiti semplici e le loro donne non avevano ‘l viso dipinto, ma pensavano solo a filare. Oh fortunate! Ciascuna era certa de la sua sepoltura in patria e ancor nessuna era abbandonata per affari in Francia. Una vegliava con amore la culla e usava la lingua infantile per consolare i suoi piccoli, quella lingua che diverte prima di tutto i padri e le madri, l’altra, filando tra la servitù, raccontava le antiche favole. Nacqui tra le alte grida di mia madre che invocava Maria, in un così pacifico e bello viver di cittadini, tra una così giusta cittadinanza, in una così dolce casa. Ne l’antico vostro Batisteo divenni cristiano con il nome di Cacciaguida. Ebbi due fratelli, la mia donna venne dalla pianura Padana e da lei hai preso il cognome. Lo imperador Currado mi diede il titolo di cavaliere e con lui combattei nella seconda crociata contro i musulmani che, per colpa della debolezza del papa, usurpano la Terrasanta. Lì fui ucciso da quella gente turpa e venni dal martiro a questa pace”.
Canto integrale
Benigna volontade in che si liqua
sempre l'amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua,
silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quietar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira.
Come saranno a' giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
ch'io le pregassi, a tacer fur concorde?
Bene è che sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri,
etternalmente quello amor si spoglia.
Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond'e' s'accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:
tale dal corno che 'n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;
né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radial trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.
Sì pia l'ombra d'Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s'accorse.
«O sanguis meus, o superinfusa
gratia Dei, sicut tibi cui
bis unquam celi ianua reclusa?».
Così quel lume: ond'io m'attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.
Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
ch'io non lo 'ntesi, sì parlò profondo;
né per elezion mi si nascose,
ma per necessità, ché 'l suo concetto
al segno d'i mortal si soprapuose.
E quando l'arco de l'ardente affetto
fu sì sfogato, che 'l parlar discese
inver' lo segno del nostro intelletto,
la prima cosa che per me s'intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
che nel mio seme se' tanto cortese!».
E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
du' non si muta mai bianco né bruno,
solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
in ch'io ti parlo, mercè di colei
ch'a l'alto volo ti vestì le piume.
Tu credi che a me tuo pensier mei
da quel ch'è primo, così come raia
da l'un, se si conosce, il cinque e 'l sei;
e però ch'io mi sia e perch'io paia
più gaudioso a te, non mi domandi,
che alcun altro in questa turba gaia.
Tu credi 'l vero; ché i minori e ' grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi;
ma perché 'l sacro amore in che io veglio
con perpetua vista e che m'asseta
di dolce disiar, s'adempia meglio,
la voce tua sicura, balda e lieta
suoni la volontà, suoni 'l disio,
a che la mia risposta è già decreta!».
Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
pria ch'io parlassi, e arrisemi un cenno
che fece crescer l'ali al voler mio.
Poi cominciai così: «L'affetto e 'l senno,
come la prima equalità v'apparse,
d'un peso per ciascun di voi si fenno,
però che 'l sol che v'allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse.
Ma voglia e argomento ne' mortali,
per la cagion ch'a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali;
ond'io, che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa.
Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia preziosa ingemmi,
perché mi facci del tuo nome sazio».
«O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice»:
cotal principio, rispondendo, femmi.
Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent'anni e piùe
girato ha 'l monte in la prima cornice,
mio figlio fu e tuo bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica
tu li raccorci con l'opere tue.
Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond'ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.
Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.
Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre, che 'l tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura.
Non avea case di famiglia vòte;
non v'era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che 'n camera si puote.
Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com'è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo.
Bellincion Berti vid'io andar cinto
di cuoio e d'osso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza 'l viso dipinto;
e vidi quel d'i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
e le sue donne al fuso e al pennecchio.
Oh fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta.
L'una vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l'idioma
che prima i padri e le madri trastulla;
l'altra, traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
d'i Troiani, di Fiesole e di Roma.
Saria tenuta allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
qual or saria Cincinnato e Corniglia.
A così riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello,
Maria mi diè, chiamata in alte grida;
e ne l'antico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida.
Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo.
Poi seguitai lo 'mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado.
Dietro li andai incontro a la nequizia
di quella legge il cui popolo usurpa,
per colpa d'i pastor, vostra giustizia.
Quivi fu' io da quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt'anime deturpa;
e venni dal martiro a questa pace».
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