Canto V

Vien dietro a me, e lascia dir le genti: sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti.

Argomento del canto

Ripresa della salita - Distrazione di Dante e rimprovero di Virgilio – I morti di morte violenta pentiti solo prima di morire – Iacopo del Càssero – Buonconte da Montefeltro – Pia de’ Tolomei


Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio del 27 marzo (o 10 aprile), Pasqua.

Il distaccato ricordo della violenza subita

Dante ha già lasciato le ombre dei pigri seguendo il suo duca, quando una, indicandolo con ‘l dito, grida: “Ma quello più sotto pare vivo: il sole non lo attraversa!”. Al suono di quelle parole Dante si volta e vede tutta la maraviglia dell’anima che continua a  guardarlo con insistenza. Il maestro lo rimprovera: “Che ti interessa? Perché rallenti? Vieni dietro a me, e lascia dire! Sta come una torre ferma, che non crolla per quanto soffi il vento: non bisogna distrarsi con nuovi pensieri quando si persegue una meta”. Arrossito dalla vergogna e per questo perdonato, Dante non può che dire: “Eccomi!”.

E ‘ntanto, lungo la parete della montagna arrivano delle anime cantando il Miserere. Anche loro, non appena si accorgono che il corpo di Dante fa ombra, mutano il loro canto in un “Oh” lungo e fioco e due di loro, come messaggeri, corrono incontr’ ai due poeti a chiedere la loro condizione. “Fate onore a quest’uomo vivo il cui corpo è vera cane: vi può tornare caro!” spiega Virgilio ai due che, alla velocità dei fulmini, si riaccostano ai compagni. Come un esercito in rotta, ora premono attorno a Dante e lo pregano di rallentare perché li ascolti e porti nel mondo loro notizie. Sono tutti morti di morte violenta e peccatori infino a l’ultima ora, pacificati a Dio solo nel momento della morte. Dante non ne riconosce nessuno, ma promette loro, in nome di quella pace che anche lui sta cercando di mondo in mondo, di esaudire i loro desideri.

Il primo che parla è Iacopo del Cassero, podestà di Bologna alla fine del 1200: in Fano, dove è nato, si preghi per lui! Racconta la sua morte per tradimento nei pressi di Padova per opera del marchese di Ferrara Azzo VIII: ferito, scappò nella direzione sbagliata in una palude e, impigliato tra le cannucce e il fango, vide dalle sue vene farsi in terra un laco di sangue.

Un altro spirito augura a Dante di salire l’alto monte e lo prega di aiutarlo pietoso dal momento che nemmeno la sua vedova ha cura di lui: “Io fui di Montefeltro e son Bonconte”. Il poeta lo conosce bene perché ha combattuto con lui nella battaglia di Campaldino nel 1289 ed è curioso di sapere che fine abbia fatto il suo cadavere. La ricostruzione che fa Bonconte è circostanziata: fuggendo a piede e insanguinato arrivò, forato ne la gola, dove il fiume Archiano si immette nell’Arno. Quivi perdette la vista e quivi morì affidandosi a Maria. L’angelo di Dio gli prese l’anima, ma il diavolo gridava: “Perché mi porti via la sua anima per una lagrimetta che mi toglie? Farò del suo corpo a modo mio”. Il diavolo scatenò allora nebbia e vento. Una forte pioggia riempì i fossati e si riversò veloce in Arno dove fu spinto il suo corpo gelato. La croce che si era fatto al petto fu sciolta e lo ricoprirono i detriti. 

Un terzo spirito segue il secondo: è Pia che chiede a Dante di ricordarla dopo essere tornato al mondo ed essersi riposato de la lunga via. Condensa la sua triste storia di donna uccisa dal marito in sei versi che tacciono la violenza subita: nata a Siena e morta in Maremma, rievoca la sua mano ‘nnanellata con la gemma ricevuta dal suo sposo.

Testo del canto

Io era già da quell'ombre partito,


e seguitava l'orme del mio duca,


quando di retro a me, drizzando 'l dito,


 


una gridò: «Ve' che non par che luca


lo raggio da sinistra a quel di sotto,


e come vivo par che si conduca!».


 


Li occhi rivolsi al suon di questo motto,


e vidile guardar per maraviglia


pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto.


 


«Perché l'animo tuo tanto s'impiglia»,


disse 'l maestro, «che l'andare allenti?


che ti fa ciò che quivi si pispiglia?


 


Vien dietro a me, e lascia dir le genti:


sta come torre ferma, che non crolla


già mai la cima per soffiar di venti;


 


ché sempre l'omo in cui pensier rampolla


sovra pensier, da sé dilunga il segno,


perché la foga l'un de l'altro insolla».


 


Che potea io ridir, se non «Io vegno»?


Dissilo, alquanto del color consperso


che fa l'uom di perdon talvolta degno.


 


E 'ntanto per la costa di traverso


venivan genti innanzi a noi un poco,


cantando 'Miserere' a verso a verso.


 


Quando s'accorser ch'i' non dava loco


per lo mio corpo al trapassar d'i raggi,


mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;


 


e due di loro, in forma di messaggi,


corsero incontr'a noi e dimandarne:


«Di vostra condizion fatene saggi».


 


E 'l mio maestro: «Voi potete andarne


e ritrarre a color che vi mandaro


che 'l corpo di costui è vera carne.


 


Se per veder la sua ombra restaro,


com'io avviso, assai è lor risposto:


fàccianli onore, ed essere può lor caro».


 


Vapori accesi non vid'io sì tosto


di prima notte mai fender sereno,


né, sol calando, nuvole d'agosto,


 


che color non tornasser suso in meno;


e, giunti là, con li altri a noi dier volta


come schiera che scorre sanza freno.


 


«Questa gente che preme a noi è molta,


e vegnonti a pregar», disse 'l poeta:


«però pur va, e in andando ascolta».


 


«O anima che vai per esser lieta


con quelle membra con le quai nascesti»,


venian gridando, «un poco il passo queta.


 


Guarda s'alcun di noi unqua vedesti,


sì che di lui di là novella porti:


deh, perché vai? deh, perché non t'arresti?


 


Noi fummo tutti già per forza morti,


e peccatori infino a l'ultima ora;


quivi lume del ciel ne fece accorti,


 


sì che, pentendo e perdonando, fora


di vita uscimmo a Dio pacificati,


che del disio di sé veder n'accora».


 


E io: «Perché ne' vostri visi guati,


non riconosco alcun; ma s'a voi piace


cosa ch'io possa, spiriti ben nati,


 


voi dite, e io farò per quella pace


che, dietro a' piedi di sì fatta guida


di mondo in mondo cercar mi si face».


 


E uno incominciò: «Ciascun si fida


del beneficio tuo sanza giurarlo,


pur che 'l voler nonpossa non ricida.


 


Ond'io, che solo innanzi a li altri parlo,


ti priego, se mai vedi quel paese


che siede tra Romagna e quel di Carlo,


 


che tu mi sie di tuoi prieghi cortese


in Fano, sì che ben per me s'adori


pur ch'i' possa purgar le gravi offese.


 


Quindi fu' io; ma li profondi fóri


ond'uscì 'l sangue in sul quale io sedea,


fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,


 


là dov'io più sicuro esser credea:


quel da Esti il fé far, che m'avea in ira


assai più là che dritto non volea.


 


Ma s'io fosse fuggito inver' la Mira,


quando fu' sovragiunto ad Oriaco,


ancor sarei di là dove si spira.


 


Corsi al palude, e le cannucce e 'l braco


m'impigliar sì ch'i' caddi; e lì vid'io


de le mie vene farsi in terra laco».


 


Poi disse un altro: «Deh, se quel disio


si compia che ti tragge a l'alto monte,


con buona pietate aiuta il mio!


 


Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;


Giovanna o altri non ha di me cura;


per ch'io vo tra costor con bassa fronte».


 


E io a lui: «Qual forza o qual ventura


ti traviò sì fuor di Campaldino,


che non si seppe mai tua sepultura?».


 


«Oh!», rispuos'elli, «a piè del Casentino


traversa un'acqua c'ha nome l'Archiano,


che sovra l'Ermo nasce in Apennino.


 


Là 've 'l vocabol suo diventa vano,


arriva' io forato ne la gola,


fuggendo a piede e sanguinando il piano.


 


Quivi perdei la vista e la parola


nel nome di Maria fini', e quivi


caddi, e rimase la mia carne sola.


 


Io dirò vero e tu 'l ridì tra ' vivi:


l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno


gridava: «O tu del ciel, perché mi privi?


 


Tu te ne porti di costui l'etterno


per una lagrimetta che 'l mi toglie;


ma io farò de l'altro altro governo!».


 


Ben sai come ne l'aere si raccoglie


quell'umido vapor che in acqua riede,


tosto che sale dove 'l freddo il coglie.


 


Giunse quel mal voler che pur mal chiede


con lo 'ntelletto, e mosse il fummo e 'l vento


per la virtù che sua natura diede.


 


Indi la valle, come 'l dì fu spento,


da Pratomagno al gran giogo coperse


di nebbia; e 'l ciel di sopra fece intento,


 


sì che 'l pregno aere in acqua si converse;


la pioggia cadde e a' fossati venne


di lei ciò che la terra non sofferse;


 


e come ai rivi grandi si convenne,


ver' lo fiume real tanto veloce


si ruinò, che nulla la ritenne.


 


Lo corpo mio gelato in su la foce


trovò l'Archian rubesto; e quel sospinse


ne l'Arno, e sciolse al mio petto la croce


 


ch'i' fe' di me quando 'l dolor mi vinse;


voltòmmi per le ripe e per lo fondo,


poi di sua preda mi coperse e cinse».


 


«Deh, quando tu sarai tornato al mondo,


e riposato de la lunga via»,


seguitò 'l terzo spirito al secondo,


 


«ricorditi di me, che son la Pia:


Siena mi fé, disfecemi Maremma:


salsi colui che 'nnanellata pria


 


disposando m'avea con la sua gemma».

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