Canto XXI

Questi che guida in alto li occhi miei, è quel Virgilio dal qual tu togliesti forza a cantar de li uomini e d'i dèi.

Argomento del canto

Apparizione improvvisa di un’anima – Spiegazione del terremoto – Presentazione di Stazio – Riconoscimento di Virgilio


Mattino di martedì 29 marzo (o 12 aprile).

Un riconoscimento inaspettato

Dante ha sete di sapere il perché di quel terremoto e si muove in fretta dietro al suo duca per la via impacciata dalle anime degli avari che lo muovono a pietà. Ed ecco improvvisamente appare un’ombra dietro di loro di cui si accorgono solo quando parla: “O frati miei, Dio vi dea pace”. Si voltano subito e Virgilio le augura a sua volta la pace del Paradiso che a lui, in etterno essilio nel Limbo, è negata. Senza che si fermino, il dialogo continua: “Se voi siete ombre che Dio sù non degna, chi v’ha portato tanto in alto per la sua scala?” Risponde Virgilio: “Questi che è con me porta sulla fronte i segni che l’angel profila e questo è la prova che è destinato al regno dei buoni. Poiché è ancor vivo, non poteva venire solo e io fui tratto fuor de l’ampia gola d’inferno per guidarlo fino a dove basterà la mia scuola. Ma dimmi se tu sai la ragione di tale terremoto”. Questa domanda asseconda il disio di Dante che, già per la speranza della risposta, sente men la sete di sapere. L’anima racconta che la montagna del Purgatorio è sottomessa a un ordine divino ed è libera da ogne alterazione di origine terrena: non pioggia, non grando, non neve, non rugiada, non brina, nuvole, né lampi, né arcobaleni, né vento dopo i tre gradini d’ingresso dove sta l’angelo delegato di san Pietro. Il terremoto qui non può avere cause naturali. La terra trema quando un’anima si sente purificata per salir sù, mai prima di avere assecondato la divina giustizia che ne ha imposto il tormento. La accompagnano il grido di lode al Segnor delle altre anime. Chi parla è rimasto in questo girone cinquecent’anni e più e solo ora ha sentito la libera volontà di passare in Paradiso.

Virgilio, compiaciuto di questa spiegazione come Dante, vuole sapere chi sia l’anima e perché sia stata qui così a lungo. La presentazione è sorprendente: “Vissi come poeta, il nome che più dura e più onora, nel tempo del buon imperatore romano Tito che vendicòl sangue di Cristo con la distruzione di Gerusalemme. Ero famoso, ma non ancora con fede. Fu tanto dolce il mio canto che, benché tolosano, Roma mi trasse a sé. Mi chiamano Stazio e cantai di Tebe e poi del grande Achille, ma morii prima di completare la seconda fatica. Seme della mia ispirazione poetica, come per altri più di mille, fu l’Eneida, che mi fece da mamma e da nutrice per la mia poesia. E per essere vivuto quando visse Virgilio accetterei di restare in Purgatorio persino un anno in più di quel che devo”.

Virgilio fa subito cenno di tacere a Dante, che, nonostante la volontà di assecondarlo, si lascia andare al sorriso che, come il pianto, è difficile da controllare per i più sinceri. L’ombra fissa Dante ne li occhi: “Perché giusto adesso sulla tua faccia un lampeggiar di riso?”. Dante è tra due fuochi: Virgilio chiede di tacer e Stazio scongiura che dica. Dante sospira. Virgilio lo autorizza a parlare: “Forse, antico spirto, ora ti maraviglerai ancor di più che del mio rider: questi, che guida in alto gli occhi miei, è quel Virgilio dal quale tu traesti ispirazione per cantar uomini e dei. Quelle parole che hai detto di lui sono state l’unica ragione del mio rider”.

Stazio si china ad abbracciare i piedi a Virgilio, ma lui lo ferma: “Frate, non farlo ché tu sei ombra e ombra vedi”. La quantitade de l’amor che lo accende gli ha fatto dimenticare la loro vanitate!

Testo del canto

La sete natural che mai non sazia

se non con l'acqua onde la femminetta

samaritana domandò la grazia,


mi travagliava, e pungeami la fretta

per la 'mpacciata via dietro al mio duca,

e condoleami a la giusta vendetta.


Ed ecco, sì come ne scrive Luca

che Cristo apparve a' due ch'erano in via,

già surto fuor de la sepulcral buca,


ci apparve un'ombra, e dietro a noi venìa,

dal piè guardando la turba che giace;

né ci addemmo di lei, sì parlò pria,


dicendo; «O frati miei, Dio vi dea pace».

Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio

rendéli 'l cenno ch'a ciò si conface.


Poi cominciò: «Nel beato concilio

ti ponga in pace la verace corte

che me rilega ne l'etterno essilio».


«Come!», diss'elli, e parte andavam forte:

«se voi siete ombre che Dio sù non degni,

chi v'ha per la sua scala tanto scorte?».


E 'l dottor mio: «Se tu riguardi a' segni

che questi porta e che l'angel profila,

ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni.


Ma perché lei che dì e notte fila

non li avea tratta ancora la conocchia

che Cloto impone a ciascuno e compila,


l'anima sua, ch'è tua e mia serocchia,

venendo sù, non potea venir sola,

però ch'al nostro modo non adocchia.


Ond'io fui tratto fuor de l'ampia gola

d'inferno per mostrarli, e mosterrolli

oltre, quanto 'l potrà menar mia scola.


Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli

diè dianzi 'l monte, e perché tutto ad una

parve gridare infino a' suoi piè molli».


Sì mi diè, dimandando, per la cruna

del mio disio, che pur con la speranza

si fece la mia sete men digiuna.


Quei cominciò: «Cosa non è che sanza

ordine senta la religione

de la montagna, o che sia fuor d'usanza.


Libero è qui da ogne alterazione:

di quel che 'l ciel da sé in sé riceve

esser ci puote, e non d'altro, cagione.


Per che non pioggia, non grando, non neve,

non rugiada, non brina più sù cade

che la scaletta di tre gradi breve;


nuvole spesse non paion né rade,

né coruscar, né figlia di Taumante,

che di là cangia sovente contrade;


secco vapor non surge più avante

ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai,

dov'ha 'l vicario di Pietro le piante.


Trema forse più giù poco o assai;

ma per vento che 'n terra si nasconda,

non so come, qua sù non tremò mai.


Tremaci quando alcuna anima monda

sentesi, sì che surga o che si mova

per salir sù; e tal grido seconda.


De la mondizia sol voler fa prova,

che, tutto libero a mutar convento,

l'alma sorprende, e di voler le giova.


Prima vuol ben, ma non lascia il talento

che divina giustizia, contra voglia,

come fu al peccar, pone al tormento.


E io, che son giaciuto a questa doglia

cinquecent'anni e più, pur mo sentii

libera volontà di miglior soglia:


però sentisti il tremoto e li pii

spiriti per lo monte render lode

a quel Segnor, che tosto sù li 'nvii».


Così ne disse; e però ch'el si gode

tanto del ber quant'è grande la sete.

non saprei dir quant'el mi fece prode.


E 'l savio duca: «Omai veggio la rete

che qui v'impiglia e come si scalappia,

perché ci trema e di che congaudete.


Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia,

e perché tanti secoli giaciuto

qui se', ne le parole tue mi cappia».


«Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto

del sommo rege, vendicò le fóra

ond'uscì 'l sangue per Giuda venduto,


col nome che più dura e più onora

era io di là», rispuose quello spirto,

«famoso assai, ma non con fede ancora.


Tanto fu dolce mio vocale spirto,

che, tolosano, a sé mi trasse Roma,

dove mertai le tempie ornar di mirto.


Stazio la gente ancor di là mi noma:

cantai di Tebe, e poi del grande Achille;

ma caddi in via con la seconda soma.


Al mio ardor fuor seme le faville,

che mi scaldar, de la divina fiamma

onde sono allumati più di mille;


de l'Eneida dico, la qual mamma

fummi e fummi nutrice poetando:

sanz'essa non fermai peso di dramma.


E per esser vivuto di là quando

visse Virgilio, assentirei un sole

più che non deggio al mio uscir di bando».


Volser Virgilio a me queste parole

con viso che, tacendo, disse 'Taci';

ma non può tutto la virtù che vuole;


ché riso e pianto son tanto seguaci

a la passion di che ciascun si spicca,

che men seguon voler ne' più veraci.


Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca;

per che l'ombra si tacque, e riguardommi

ne li occhi ove 'l sembiante più si ficca;


e «Se tanto labore in bene assommi»,

disse, «perché la tua faccia testeso

un lampeggiar di riso dimostrommi?».


Or son io d'una parte e d'altra preso:

l'una mi fa tacer, l'altra scongiura

ch'io dica; ond'io sospiro, e sono inteso


dal mio maestro, e «Non aver paura»,

mi dice, «di parlar; ma parla e digli

quel ch'e' dimanda con cotanta cura».


Ond'io: «Forse che tu ti maravigli,

antico spirto, del rider ch'io fei;

ma più d'ammirazion vo' che ti pigli.


Questi che guida in alto li occhi miei,

è quel Virgilio dal qual tu togliesti

forza a cantar de li uomini e d'i dèi.


Se cagion altra al mio rider credesti,

lasciala per non vera, ed esser credi

quelle parole che di lui dicesti».


Già s'inchinava ad abbracciar li piedi

al mio dottor, ma el li disse: «Frate,

non far, ché tu se' ombra e ombra vedi».


Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate

comprender de l'amor ch'a te mi scalda,

quand'io dismento nostra vanitate,


trattando l'ombre come cosa salda».

I nostri Mecenate

SicComeDante è un progetto gestito dall'Associazione Culturale inPrimis - APS. Se vuoi sostenere questo progetto, puoi fare una donazione e, a seconda dell'importo, sarai pubblicato tra i nostri Mecenate accanto al tuo canto, terzina o verso preferito. Scopri di più o dona ora.

Mecenate del Canto XXI

Vuoi sostenere SicComeDante?
Diventa Mecenate

Mecenate della terzina

Diventa Mecenate

Mecenate del verso

Diventa Mecenate

Ricevi tutti gli aggiornamenti

Gruppo WhatsApp Iscriviti alla Newsletter