Argomento del canto
L’attraversamento delle fiamme – Sosta notturna e terzo sogno di Dante – Salita all’Eden - Virgilio dichiara Dante padrone di se stesso
Tramonto e notte di martedì 29 marzo (o 12 aprile). Alba del 30 marzo (o 13 aprile)
Il sole a Gerusalemme è all’alba, sull’Ebro a mezzanotte, sulle onde del Gange a mezzogiorno e in Purgatorio è al tramonto quando appare lieto, fuor de la fiamma, l’angel di Dio cantando “Beati i puri di cuore”. Ordina ai tre poeti di entrare nel fuoco seguendo il canto che li accompagnerà al di là. Dante si sente come uno che è messo ne la fossa: vorrebbe ubbidire, ma immagina forte corpi umani già veduti accesi. Virgilio lo rassicura: “Figliuol mio, qui può esserci tormento, ma non morte. Ricorditi, ricorditi come ti ho portato salvo sopra Gerion. Sappi per certo che se anche tu stessi dentro questa fiamma mille anni, non potresti farti calvo nemmeno d’un capello. E se tu forse credi ch’io ti inganni, prova con le tue mani ad avvicinare il lembo d’i tuoi panni. Non avere paura: entra sicuro!”. Ma Dante rimane fermo contra la sua coscienza. Un poco turbato, il maestro utilizza allora l’ultimo argomento di convinzione: “Tra Beatrice e te è questo muro di fuoco”. La durezza di Dante, udendo il nome che ne la mente sempre gli rampolla, subito si ammorbidisce. Virgilio sorride come si fa con il fanciul conquistato da un frutto ed entra per primo nel foco innanzi a lui pregando Stazio, che per lunga strada li ha divisi, di chiudere la fila. Dante per rinfrescarsi si getterebbe in un vetro bogliente tanto è lo ‘ncendio senza misura e per confortarlo lo dolce padre gli annuncia Beatrice: “Li occhi suoi già veder parmi”. Li guida fuori dal fuoco la voce di un angelo il cui lume non può essere sostenuto. Li esorta ad affrettarsi perché lo sol sen va.
La via sale dritta entro ‘l sasso quando, allo sparire dell’ombra di Dante, si accorgono del tramonto e pria che venga notte ciascun dei tre poeti fa letto d’un grado. Mansueto come una capra Dante e guardinghi come pastori Virgilio e Stazio, prendono sonno e, fasciati dalle alte pareti della scala, vedono solo le stelle, più chiare e maggiori del solito. Ne l’ora mattutina dei sogni profetici all’apparire del pianeta Venere, a Dante appare una donna giovane e bella che coglie fiori e canta. Dice di essere Lia, prima moglie del biblico Giacobbe, e di farsi una ghirlanda per piacersi a lo specchio. Sua sorella è Rachel che siede tutto il giorno allo specchio, vaga di vedere i suoi belli occhi così come lei lo è di agire.
Al risveglio Dante trova i gran maestri già levati e Virgilio che gli annuncia la beatitudine imminente: le sue parole sono come strenne gradite che gli danno, ad ogni passo, volontà e strumenti per il volo verso il paradiso. Quando arrivano in cima alla scala, Virgilio ficca i suoi occhi in quelli di Dante e dice: “Hai veduto, figlio, il foco del purgatorio e quello dell’inferno e sei ora dove, con il mio ingegno e la mia arte, non mi oriento più. Se’ fuor de le vie strette e ripide: prendi lo tuo piacer per guida. Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce, l’erbette e i fiori che qui la terra produce da sé: qui puoi attendere Beatrice che mi ha indirizzato a te. Non aspettar più mio dir né mio cenno: libero, dritto e sano è ora il tuo arbitrio e sarebbe un peccato non assecondarlo. Per questo io ti incorono e ti nomino signore di te stesso”
Testo del canto
Sì come quando i primi raggi vibra
là dove il suo fattor lo sangue sparse,
cadendo Ibero sotto l'alta Libra,
e l'onde in Gange da nona riarse,
sì stava il sole; onde 'l giorno sen giva,
come l'angel di Dio lieto ci apparse.
Fuor de la fiamma stava in su la riva,
e cantava 'Beati mundo corde!'.
in voce assai più che la nostra viva.
Poscia «Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
e al cantar di là non siate sorde»,
ci disse come noi li fummo presso;
per ch'io divenni tal, quando lo 'ntesi,
qual è colui che ne la fossa è messo.
In su le man commesse mi protesi,
guardando il foco e imaginando forte
umani corpi già veduti accesi.
Volsersi verso me le buone scorte;
e Virgilio mi disse: «Figliuol mio,
qui può esser tormento, ma non morte.
Ricorditi, ricorditi! E se io
sovresso Gerion ti guidai salvo,
che farò ora presso più a Dio?
Credi per certo che se dentro a l'alvo
di questa fiamma stessi ben mille anni,
non ti potrebbe far d'un capel calvo.
E se tu forse credi ch'io t'inganni,
fatti ver lei, e fatti far credenza
con le tue mani al lembo d'i tuoi panni.
Pon giù omai, pon giù ogni temenza;
volgiti in qua e vieni: entra sicuro!».
E io pur fermo e contra coscienza.
Quando mi vide star pur fermo e duro,
turbato un poco disse: «Or vedi, figlio:
tra Beatrice e te è questo muro».
Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla,
allor che 'l gelso diventò vermiglio;
così, la mia durezza fatta solla,
mi volsi al savio duca, udendo il nome
che ne la mente sempre mi rampolla.
Ond'ei crollò la fronte e disse: «Come!
volenci star di qua?»; indi sorrise
come al fanciul si fa ch'è vinto al pome.
Poi dentro al foco innanzi mi si mise,
pregando Stazio che venisse retro,
che pria per lunga strada ci divise.
Sì com'fui dentro, in un bogliente vetro
gittato mi sarei per rinfrescarmi,
tant'era ivi lo 'ncendio sanza metro.
Lo dolce padre mio, per confortarmi,
pur di Beatrice ragionando andava,
dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi».
Guidavaci una voce che cantava
di là; e noi, attenti pur a lei,
venimmo fuor là ove si montava.
'Venite, benedicti Patris mei',
sonò dentro a un lume che lì era,
tal che mi vinse e guardar nol potei.
«Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera;
non v'arrestate, ma studiate il passo,
mentre che l'occidente non si annera».
Dritta salia la via per entro 'l sasso
verso tal parte ch'io toglieva i raggi
dinanzi a me del sol ch'era già basso.
E di pochi scaglion levammo i saggi,
che 'l sol corcar, per l'ombra che si spense,
sentimmo dietro e io e li miei saggi.
E pria che 'n tutte le sue parti immense
fosse orizzonte fatto d'uno aspetto,
e notte avesse tutte sue dispense,
ciascun di noi d'un grado fece letto;
ché la natura del monte ci affranse
la possa del salir più e 'l diletto.
Quali si stanno ruminando manse
le capre, state rapide e proterve
sovra le cime avante che sien pranse,
tacite a l'ombra, mentre che 'l sol ferve,
guardate dal pastor, che 'n su la verga
poggiato s'è e lor di posa serve;
e quale il mandrian che fori alberga,
lungo il pecuglio suo queto pernotta,
guardando perché fiera non lo sperga;
tali eravamo tutti e tre allotta,
io come capra, ed ei come pastori,
fasciati quinci e quindi d'alta grotta.
Poco parer potea lì del di fori;
ma, per quel poco, vedea io le stelle
di lor solere e più chiare e maggiori.
Sì ruminando e sì mirando in quelle,
mi prese il sonno; il sonno che sovente,
anzi che 'l fatto sia, sa le novelle.
Ne l'ora, credo, che de l'oriente,
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d'amor par sempre ardente,
giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
«Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch'i' mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo specchio, qui m'addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell'è d'i suoi belli occhi veder vaga
com'io de l'addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l'ovrare appaga».
E già per li splendori antelucani,
che tanto a' pellegrin surgon più grati,
quanto, tornando, albergan men lontani,
le tenebre fuggian da tutti lati,
e 'l sonno mio con esse; ond'io leva'mi,
veggendo i gran maestri già levati.
«Quel dolce pome che per tanti rami
cercando va la cura de' mortali,
oggi porrà in pace le tue fami».
Virgilio inverso me queste cotali
parole usò; e mai non furo strenne
che fosser di piacere a queste iguali.
Tanto voler sopra voler mi venne
de l'esser sù, ch'ad ogne passo poi
al volo mi sentia crescer le penne.
Come la scala tutta sotto noi
fu corsa e fummo in su 'l grado superno,
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: «Il temporal foco e l'etterno
veduto hai, figlio; e se' venuto in parte
dov'io per me più oltre non discerno.
Tratto t'ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se' de l'erte vie, fuor se' de l'arte.
Vedi lo sol che 'n fronte ti riluce;
vedi l'erbette, i fiori e li arbuscelli
che qui la terra sol da sé produce.
Mentre che vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch'io te sovra te corono e mitrio».
I nostri Mecenate
SicComeDante è un progetto gestito dall'Associazione Culturale inPrimis - APS. Se vuoi sostenere questo progetto, puoi fare una donazione e, a seconda dell'importo, sarai pubblicato tra i nostri Mecenate accanto al tuo canto, terzina o verso preferito. Scopri di più o dona ora.
Mecenate del Canto XXVII
Vuoi sostenere SicComeDante?
Diventa MecenateMecenate della terzina
Giovanna Ronchi
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch'io te sovra te corono e mitrio».